"Ambiguità-ambivalenza" della corte europea dei diritti dell'uomo nell'uso della Storia

Published: 2015-11-19

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17/04/2012
AUTORE: Andrea Buratti
L’USO DELLA STORIA NELLA GIURISPRUDENZA
DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI 
DELL’UOMO

 

 

Immagine-1, fuori testo, Kapo o kapò ebreo del Konzentrationslager di Salaspils, Lettonia, cinghia di trasmissione del potere. Click...
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Sommario:
1. Premessa: pietrificare la storia o fare i conti col passato?
– 2. Il problema dell’uso della storia nella giurisprudenza di Strasburgo.
(...)
– 7. Segue: e) l’uso dell’argomento storico, interrogativi aperti.
– 8. Negare la verità storica: un abuso di diritto.
– 9. Per una conclusione: protezione delle tradizioni storiche o metodo storico critico?

La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice; e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta1.

1. Premessa: pietrificare la storia o fare i conti col passato?

In Ungheria, nel 2004, alcuni giornali di destra promuovono la costruzione di una statua in omaggio a Pál Teleki, primo ministro ungherese negli anni quaranta. L’iniziativa – volta alla riabilitazione di un personaggio ritenuto responsabile della legislazione antisemita, e più in generale, di aver condotto l’Ungheria nel secondo conflitto mondiale – suscita un vasto ed acceso dibattito, nel quale interviene lo storico Karsai, contestando la proposta e ricordando le colpe e i crimini di Teleki. Condannato dalle corti nazionali per diffamazione, Karsai ricorre alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel 2009, gli dà ragione.
Secondo la Corte, il ricorrente – uno storico che ha pubblicato diversi lavori sull’Olocausto – ha scritto l’articolo impugnato nell’ambito di un dibattito concernente le intenzioni di un Paese, la cui storia presenta episodi di totalitarismo, di fare i conti col proprio passato. Il dibattito è pertanto del massimo interesse pubblico (Karsai c. Ungheria, 2009, § 35).
Si tratta di un caso per molti versi emblematico della radicalità delle questioni poste dall’uso pubblico della storia, nell’alternativa tra la sua “pietrificazione” in tradizioni e simboli – condivisi o di parte – e la sua sottoposizione ad un dibattito critico continuo.
______________________________________________
∗ Il saggio costituisce una versione rielaborata della Relazione presentata al Convegno “La Convenzione europea dei diritti dell’uomo tra effettività delle garanzie e integrazione degli ordinamenti” (Università di Perugia, 17 novembre 2011), i cui Atti sono in corso di pubblicazione (a cura di G. Repetto). I passi citati delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sono stati tradotti dall’autore.

1 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, (1915-7), a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, 1989, p. 98.

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2. Il problema dell’uso della storia nella giurisprudenza di Strasburgo

Il passato, la sua rappresentazione pubblica e la sua memoria condivisa costituiscono i fondamenti dell’identità costituzionale dei popoli. Essi sono pertanto oggetto di un dibattito ed un “uso” pubblico, articolato su diversi piani culturali2. Non può stupire che tale dibattito susciti tanti conflitti e condizioni l’interpretazione dei cataloghi dei diritti fondamentali, specie nelle democrazie meno consolidate.
Posta dinanzi a controversie che coinvolgono la messa in discussione del passato e delle tradizioni, la Corte europea è spesso costretta ad ergersi a giudice della storia di popoli e nazioni. Più spesso, è la Corte stessa a ricorrere alla narrazione storica per motivare le proprie sentenze, nel tentativo di mediare attraverso l’argomentazione storica esigenze di tutela di un ordine oggettivo di diritti e specificità dei contesti nazionali.
D’altronde, è lo stesso testo della Convenzione che invita – attraverso clausole generali come il «patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici», i «principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili», la nozione di «necessità in una società democratica», la «protezione dell’ordine pubblico o della morale», il «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione», le «convinzioni religiose e filosofiche», la «libera espressione dell’opinione del popolo» – ad un’interpretazione storica e contestuale3.
Ma il confronto con la storia dei popoli europei pone alla Corte difficoltà specifiche determinate dalla sua “distanza” rispetto alle esperienze nazionali. Una difficoltà anzitutto informativa, che la Corte cerca di colmare attraverso le analisi di organismi di supporto e studio, quali la Commissione di Venezia, cui vanno affiancate le risorse informative e culturali derivanti dalla dialettica tra le parti e gli amici curiae4. Ma certamente l’estraneità della Corte dal dibattito pubblico nazionale – l’essere, il suo, un occhio esterno – aggrava la percezione di arbitrarietà dei suoi giudizi storici, specie quando questi avallano semplificazioni e riduzioni di narrazioni complesse e controverse.
Così, il problema della valutazione e dell’uso della storia nell’argomentazione giuridica – che coinvolge l’attività di ogni giudice, Corte costituzionale, o Tribunale internazionale5  –acquisisce, con riferimento alla Corte di Strasburgo, una spiccata specificità, come dimostrato dalla stessa attenzione che la Corte ha dovuto conferire alla riflessione sul “metodo storico” che caratterizza la propria giurisprudenza.
In questo lavoro vorrei ricostruire l’approccio con cui la Corte di Strasburgo si pone rispetto alla storia, alla memoria e alle tradizioni storiche nazionali, e l’uso dell’analisi storica e contestuale nella sua giurisprudenza. Analizzerò in un primo momento i diversi filoni giurisprudenziali nei quali la storia nazionale diviene elemento per la soluzione delle controversie (§ 3-7); quindi, passerò ad esaminare più nello specifico

2 La riflessione sull’uso pubblico della storia si palesa con l’intervento di Jürgen Habermas nella controversia innescata, alla fine degli anni ottanta, da Ernst Nolte, circa la minimizzazione dei crimini nazisti (i contributi sono raccolti nel volume Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, a cura di G.E. Rusconi, Torino, 1987). Ma l’uso conflittuale del passato e della memoria rappresenta un motivo dominante già nella tragedia greca (efficacissimo, sul punto, D. Susanetti, Catastrofi politiche. Sofocle e la tragedia di vivere insieme, Carocci, Roma, 2011).
3 L. Bégin, L’internationalisation de droits de l’homme et le défi de la «contextualisation», in Rev. interdisc. d’etudes jur., 53, 2004, pp. 64-66: «En fait, et cela pourra paraître paradoxal, l’internationalisation effective des droits fondamentaux va de pair avec une déformalisation et une contextualisation progressives du droit» (ivi, p. 66).
4 A. Pecorario, Argomenti comparativi e giurisprudenza Cedu: il ruolo della Commissione di Venezia in materia di diritto elettorale, in diritticomparati.it (nov. 2010): «La Commissione di Venezia ed altri organismi del Consiglio d’Europa (a titolo non esaustivo si possono ricordare l’Assemblea parlamentare, il Congresso dei poteri locali e regionali, ed il Centro di Prevenzione della Tortura), attraverso i summenzionati strumenti di soft law (raccomandazioni, risoluzioni, opinioni e così via), svolgono una preziosa opera di mediazione fra testo (convenzionale) e contesto (storico, politico e sociale) di riferimento – da questo punto di vista, benché la loro
azione non dia luogo alla elaborazione di atti giuridici altrettanto formalizzati, è bene ricordare anche il ruolo cruciale che viene quotidianamente svolto (“sul campo”) dai Bureaux extérieurs del Consiglio d’Europa, istantanei misuratori della democraticità delle Istituzioni nei Paesi di riferimento delle attività dell’Organizzazione Internazionale».
5 R. Uitz, Constitutions, Courts and History. Historical Narratives in Constitutional Adjudication, Ceu Press, Budapest-New York, 2005, pp. 5-14, che ricostruisce, tra l’altro, il dibattito e le critiche alla «law-office history» negli Stati Uniti (ivi, pp. 17 e ss.). Sul
trattamento giurisdizionale delle controversie storiche, A. Garapon, Chiudere i conti con la storia, Raffaello Cortina, Milano, 2008.

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la giurisprudenza maturata nei casi sul negazionismo storico, in cui il metodo storico che orienta la Corte diviene più esplicito (§ 8).
Nella prospettiva prescelta in questo studio, dunque, il riferimento all’argomento storico non coincide –se non per talune questioni di metodo – con la nozione di “interpretazione storica” risalente a Savigny, né con il problema dell’originalismo, su cui è ricchissimo il contributo della letteratura statunitense6, ma che è stato discusso anche con riferimento al richiamo alle intenzioni delle parti contraenti della Convenzione di Roma che ha contrassegnato talune motivazioni della Corte europea7. In questo studio, con la nozione di “argomentazione storica” faccio riferimento ad una «pratica di interpretazione contestuale»8 che valorizza i
riferimenti alla storia nella ricostruzione dei casi e nelle motivazioni delle decisioni giudiziarie. D’altronde, questa parziale ricollocazione semantica della nozione di “argomentazione storica” discende dal rilievo crescente e autonomo di questa prassi argomentativa nelle decisioni della Corte di Strasburgo. (...)

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7. Segue: e) l’uso dell’argomento storico, interrogativi aperti

In tutti questi filoni giurisprudenziali, dunque, la riflessione sul contesto culturale nazionale si spinge fino alla considerazione della storia nazionale, per inquadrare nei processi storici le ragioni di determinate leggi o misure statali così come le ragioni di esigenze, rivendicazioni, comportamenti dei singoli e dei gruppi.
Talora la storia si presenta nelle vesti di una tradizione risalente, che merita di essere compresa e rispettata; talora invece assume la dimensione di una storia politica recente, di un processo di transizione non ancora del tutto consolidato, che contestualizza e giustifica ambiguità, ritardi e contraddizioni della legislazione vigente29. Lungi dal rappresentare una mera cornice culturale cui fare ricorso per “abbellire” la sentenza o renderla più persuasiva, l’argomento storico finisce spesso per determinare il senso della decisione del caso concreto, e, nella maggior parte dei casi, giustifica e legittima misure statali restrittive dei diritti fondamentali, individuando attraverso la ricostruzione storica ragioni “contestuali” prevalenti sull’affermazione oggettiva di principi dalla vocazione universale.
In questo senso, il ricorso all’argomento storico presenta similitudini con un certo uso dell’argomento comparativo, quando dalla multiformità delle soluzioni giuridiche e dei contesti sociali nei singoli Stati aderenti si vuole ricavare l’impossibilità di soluzioni medie consensuali e la conseguente espansione dei margini d’apprezzamento30.
Peraltro, dalla casistica dei diversi possibili “usi” della storia da parte della giurisprudenza di
Strasburgo discendono interrogativi ulteriori:

quando la Corte sintetizza in poche righe di motivazione un’esperienza storica complessa, sovente controversa, per ricavarne una riflessione con pretese di oggettività sui caratteri fondamentali di un ordinamento, che tipo di ricerca storica ha compiuto, quanto approfondita?

Che fonti ha prediletto nella ricostruzione della storia nazionale, e che spazio ha conferito alle altre storie, le storie dei vinti, le storie alternative?

Con riferimento a casi che coinvolgono le transizioni nelle democrazie “recenti” o “fragili”, in particolare, non si corre il rischio di oggettivizzare, dietro l’etichetta della tradizione storica, questioni controverse, ancora aperte, circa l’interpretazione del passato e della memoria collettiva?

E di sottrarre, dunque, al dibattito pubblico e alla ricerca storica premesse ideologiche non del tutto condivise nella memoria?

I giudici di Strasburgo non finiscono così per selezionare valutativamente “una” tradizione rispetto ad “altre”, contribuendo al consolidamento di una memoria storica non

29 F. Bouchon, L’influence de cadre historique, cit., pp. 155-6.
30 G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa, Jovene, Napoli, 2011, pp. 115 e ss. In stretta sintonia con le funzioni dell’argomento storico, l’argomento comparativo fonda «istanze di riconoscimento equitativo delle situazioni giuridiche
protette» (ivi, p. 117) e determina «il passaggio da uno spazio normativo, tendenzialmente uniforme … ad uno spazio eterogeneo, culturalmente pluralista (ivi, p. 121, corsivi nel testo). Tuttavia, in un approccio meramente relativistico e minimalista, «l’analisi comparata perde le sue capacità trasformative per limitarsi ancora una volta a prendere atto di una diversità inconciliabile e paralizzante» (ivi, p. 178).
Cfr. pure F. Hoffmann – J. Ringelheim, Par delà l’universalisme et le relativisme, cit., pp. 122-3: «La diversité culturelle constitue dès lors … une cause d’incertitude, qui la contrainte à faire preuve de une plus grand déférence».

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necessariamente affermata e condivisa, condizionando il futuro, prima ancora che il passato, di una Nazione31?

Ma soprattutto: quale idea d’Europa discende dal ricorso argomentativo alle tradizioni ed alle storie nazionali? Non può non risaltare, infatti, come le tradizioni storiche – che nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione, prima, e nella scrittura dei Trattati, poi, hanno svolto un fondamentale ruolo di integrazione, dischiudendo processi di autocomprensione orientati da un’idea d’Europa e diretti verso la costruzione di un patrimonio comune di valori32 – nella prospettiva della Corte di Strasburgo fondano identità
culturalmente definite e solcano fratture della civiltà europea, spazi di incomunicabilità in cui si radicano e fermentano i margini d’apprezzamento degli Stati33. Una brusca inversione di significati e funzioni rispetto al progetto prefigurato dal preambolo della Convenzione, di un ordine pubblico europeo fondato su di un «patrimonio comune di tradizioni e ideali».

8. Negare la verità storica: un abuso di diritto

Si tratta di interrogativi che riemergono se ci si appresta ad un’analisi della giurisprudenza della Corte europea sui casi di negazionismo storico. Emerge, da qui, una vera e propria concezione della storia propria dei giudici di Strasburgo, che per molti versi esplicita opzioni rimaste sullo sfondo nell’uso della argomentazione storica.
Posta di fronte alla valutazione di compatibilità con la Convenzione di misure statali di tipo penalistico volte a reprimere la formulazione di opinioni riconducibili al negazionismo dell’Olocausto34, la Corte ha evitato di trattare questi temi secondo la prospettiva dell’art. 10 della Convenzione, spostando la controversia sul terreno del divieto di abuso di diritto35. Un canone, quest’ultimo, recessivo nella giurisprudenza europea36, che tuttavia riemerge come tecnica eccezionale nel trattamento di questi casi,

allo scopo di sottrarre la Corte da operazioni di bilanciamento della libertà di espressione, ed escludere qualsiasi esigenza di contestualizzazione delle opinioni negazioniste in un dibattito pubblico, misurando le opinioni negazioniste rispetto al canone oggettivo di fatti storici definitivamente acclarati e non più oggetto di indagine storica.

Se già in X c. Repubblica federale tedesca (1982) la Commissione aveva ritenuto il negazionismo dell’Olocausto contrastante con fatti storici notori, stabiliti con certezza da prove schiaccianti di ogni tipo, in Marais c. Francia (1996), la negazione di fatti storici definitivamente acclarati non è più soltanto idonea a

31 Sulla creatività e la valutatività delle «tradizioni» storiche è necessario il riferimento a E.J. Hobsbawm, Come si inventa una tradizione, in E.J. Hobsbawm – T. Ranger, L’invenzione della tradizione, (1983), Einaudi, Torino, 1987, pp. 3-17. Ma si vedano anche E.J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, (1989), Einaudi, Torino, 1991 (dove descrive i processi di creazione delle tradizioni nazionali), T. Todorov, Gli abusi della memoria, (1995), Ipermedium, Napoli, 2001, (che svela la selettività dei processi di costruzione delle memorie collettive e delle tradizioni storiche, come anche la valenza strategica e l’uso della memoria e della rimozione della storia),
nonché il recente E. Traverso, L’Histoire comme champ de bataille, La Découverte, Paris, 2011, spec. pp. 251 e ss.
32 Così P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 52 e ss., 171-5, 233-40.
33 È vero però, a parziale correzione di questo giudizio, che altrove la Corte ha affermato come «la diversità e la dinamica delle tradizioni culturali, delle identità etniche culturali, delle convinzioni religiose e delle idee e dei concetti artistici, letterari e socio-economici» fonda il principio del pluralismo (Gorzelik ed altri c. Polonia (2004), § 56). Sul punto, essenziale il rinvio a F. Hoffmann – J.Ringelheim, Par delà l’universalisme et le relativisme, cit., p. 135.
34 Su cui M. Manetti, Libertà di pensiero e negazionismo, in M. Ainis (a cura di), Informazione, potere, libertà, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 41 e ss.; A. Di Giovine, Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, in Dir. pubbl. comp. eur.,1/06, pp. XIII e ss., nonché, più di recente, O. Pollicino, Il negazionismo nel diritto comparato: profili ricostruttivi, in Dir. umani e dir. int., 5 (2011), pp. 85 e ss.
35 L’operazione argomentativa è ben descritta da E. Stradella, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e “prassi”, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 126 e ss., nonché da F. Losurdo, Il divieto dell’abuso del diritto nell’ordinamento europeo,
Giappichelli, Torino, 2011, pp. 107-21. Una casistica assai dettagliata in M. Castellaneta, La repressione del negazionismo e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in Dir. umani e dir. int., 5 (2011), p. 76, nt. 40-2.
36 C. Pinelli, Art. 17, in S. Bartole – Conforti – Raimondi (a cura di), Commentario, cit., pp. 455 e ss.

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determinare la lesione di diritti altrui, ma «contrasta con i valori basilari della Convenzione, come stabiliti nel Preambolo, segnatamente pace e giustizia … e può contribuire alla distruzione dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione».

Quindi, ancora più esplicitamente, in Lehideux et Isorni c. Francia (1998) viene affermato che la giustificazione di una politica filo-nazista non può trovare protezione nell’art. 10 […]. Esiste una categoria di fatti storici chiaramente accertati – come l’Olocausto – la cui negazione o revisione si vedrà sottratta dall’art. 17 alla protezione dell’art. 10 (§§ 53 e 47).

In Garaudy c. Francia (2003), la Corte rende un giudizio di piena compatibilità con la Convenzione della Loi Gayssot-Fabius, che prevede il reato di negazionismo dell’Olocausto, integrandolo attraverso la condotta di contestazione del giudicato del Tribunale di Norimberga, che viene così elevato a canone oggettivo di verità storica37:

Non vi è alcun dubbio che contestare la realtà di fatti storici chiaramente accertati, come l’Olocausto, come ha fatto il ricorrente nella sua opera, non costituisce in alcun modo un lavoro di indagine storica che si approssimi alla ricerca della verità.

Come si vede, in questo filone giurisprudenziale l’argomentazione della Corte muove da una
concezione dell’indagine storica estremamente rudimentale: declinando le categorie della certezza e della falsità rispetto agli enunciati mediante i quali essa esprime i propri risultati, sembra ignorare i presupposti stessi della ricerca storica38. È conquista metodologica oramai risalente – nella ricerca storiografica – che la verità storica altro non è che il frutto di una continua rimessa in discussione di verità date per acquisite.
Quand’anche volesse infatti ritenersi definitivamente acclarato il contenuto materiale di un evento oggetto di indagine storica, ciò nondimeno il solo mutare della prospettiva dell’osservatore, delle sue inclinazioni personali, delle domande che egli pone al materiale documentale, del contesto culturale in cui egli opera, non possono che comportare una differente «conoscenza storica»39. La verità storica cui la Corte di Strasburgo si appella è, in altre parole, soggettiva e relativa tanto quanto lo sono le idee degli uomini ed i contesti culturali dai quali essi muovono la loro indagine.

Quando non si versa in ipotesi di negazionismo dell’Olocausto del popolo ebraico, la Corte abbandona il canone del divieto di abuso di diritto

e riespande l’area di applicazione dell’art. 10 della Convenzione: così, essa ha modo di apprezzare l’irriducibile relatività della ricerca storica, riconoscendo il valore del dibattito storico e ricollegandone le garanzie di apertura e le esigenze di revisione alle medesime tutele che

37 P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo, in Ragion Pratica, 12/1999, pp. 57-58, nota la specificità della formulazione della norma francese rispetto alla legislazione di altri Paesi europei che condannano, più in generale, la contestazione di crimini contro l’umanità. Sulla sentenza Garaudy, più diffusamente, il mio A. Buratti, L’affaire Garaudy di fronte alla Corte di Strasburgo: verità storica, principio di neutralità etica e protezione dei «miti fondatori» del regime democratico, in Giur. it., 12/2005, pp. 2243-2247.
38 H.I. Marrou, La conoscenza storica, (1954), il Mulino, Bologna, 1962.
39 M. Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1950, pp. 40, 52 («Il passato è, per definizione, un dato non modificabile. Ma la conoscenza del passato è una cosa in fieri, che si trasforma e si perfeziona incessantemente», ivi, p. 60); P. Ricoeur, Histoire et vérité, Seuil, Paris, 1955, 3ª ed., pp. 23 e ss.; H.I. Marrou, La conoscenza storica, cit., p. 54: «La storia è il risultato dell’attività creatrice dello storico che – soggetto conoscente – stabilisce un rapporto tra il passato evocato e il presente che è suo». Secondo queste prospettive metodologiche vanno intese, a mio avviso, le note parole di B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 14, secondo cui «ogni vera storia è storia contemporanea». Il Croce infatti sosteneva che «tutto è certamente da riformare nella storia, e la storia, in ogni istante, si travaglia nel perfezionamento ossia nel proprio arricchimento e approfondimento, e non c’è storia che pienamente ci contenti, perché ogni nostra costruzione genera nuovi fatti e nuovi problemi, e sollecita nuove soluzioni […]. La storia riforma sé medesima; e la vigoria del suo svolgimento è appunto in questa sua costanza» (ivi, p. 51). Si vedano anche R. Aron, Lezioni sulla storia, (1989), il Mulino, Bologna, 1997, pp. 121-122, 190, 193; Id., Osservazioni sull’oggettività delle scienze sociali, in Id., La politica, la guerra, la storia, il Mulino, Bologna, 1992, pp. 541-542, 560, 572

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presidiano la libertà di espressione: nella già citata sentenza Lehideux – avente ad oggetto scritti volti alla riabilitazione della figura del Maresciallo Pétain – la Grande Camera riconosce che

gli eventi richiamati nella pubblicazione oggetto della lite sono accaduti più di quaranta anni prima della stessa. Quand’anche le parole dei due ricorrenti fossero di natura tale da rianimare la controversia e rinnovare delle sofferenze nella popolazione, il trascorrere del tempo fa sì che non sia più opportuno, trascorsi quaranta anni, applicare loro la medesima severità di dieci o venti anni prima.
Ciò fa parte degli sforzi che ogni paese è chiamato a rendere per dibattere apertamente e
serenamente della propria storia (§ 55).

Quindi, richiama l’affermazione, divenuta ormai di robusta tradizione giurisprudenziale, secondo cui la libertà di espressione vale non solo per le informazioni o idee accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti ma anche per quelle che offendono, indignano o turbano lo Stato o una qualsiasi parte della popolazione. Così vogliono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non vi è società democratica (§ 55)40.

Non si tratta, a ben vedere, di un ripensamento della propria tecnica di giudizio rispetto al
negazionismo: in Lehidueux, la Corte ritiene di trovarsi di fronte ad una vicenda che non coinvolge questo genere di opinioni, una pagina della storia francese disponibile alla critica storica41.
Anche in altri casi la giurisprudenza di Strasburgo ha accettato di calare la controversia sul terreno del bilanciamento tra libertà di espressione e limitazioni necessarie in una società democratica, riproducendo anche rispetto ad argomenti di critica storica la tecnica operante per le opinioni razziste e discriminatorie. Il primo caso in cui diviene evidente questa diversa linea argomentativa è Chauvy and Others c. Francia (2004), avente ad oggetto una controversia circa la revisione storica di fatti relativi alla resistenza francese durante la seconda guerra mondiale. Si legge:

La ricerca della verità storica è parte integrante della libertà di espressione […]. Non rientra tra i ruoli della Corte arbitrare e definire questioni storiche che sono oggetto di un dibattito aperto tra storici sui fatti storici e sulle loro interpretazioni (§ 69).

Interessantissima, nella stessa direzione, la più recente Fatullayev c. Azerbaigian (2010): il ricorrente è un giornalista azero condannato dalle autorità nazionali per aver messo in discussione, in diversi articoli, la versione storica tradizionalmente accreditata del massacro di Khojaly, perpetrato nel 1992 dagli eserciti armeno e russo contro la popolazione azera, uno degli eventi fondativi della memoria storica nazionale.
Rispetto alla versione storica accreditata, egli mette in discussione il numero delle vittime e le responsabilità dell’esercito azero nella vicenda.
Sin dalla premessa della propria argomentazione la Corte intende marcare la differenza tra il caso di specie e i casi relativi al negazionismo dell’Olocausto:

Nel presente giudizio, la discussione delle affermazioni del ricorrente sui fatti di Khojaly è circoscritta ai fini del caso di specie, ed è relativa al sindacato della Corte delle restrizioni statali di un dibattito di

40 Si tratta di una giurisprudenza inaugurata con l’Arrêt Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, § 49, e confermata in numerosi e significativi casi (tra gli altri, l’Arrêt Open Door et Dublin Well Woman c. Irlanda, 29 ottobre 1992, § 71 e l’Arrêt Otto Preminger Institut c. Austria, 20 settembre 1994, § 49); di recente, nel medesimo senso, vedi l’Arret Du Roy et Malaurie c. Francia, 3 ottobre 2000, § 27.
41 Sul punto, estate le osservazioni di C. Caruso, Ai confini dell’abuso di diritto: l’hate speech nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in L. Mezzetti – A. Morrone (a cura di), Lo strumento costituzionale, cit., pp. 346-8.

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interesse generale, nella misura in cui sia utile a determinare se le corti nazionali dello Stato convenuto abbiano ecceduto il loro margine di apprezzamento interferendo con la libertà di espressione del ricorrente. Questo giudizio non deve essere inteso come contenente una definizione fattuale o giuridica dei fatti di Khojaly o un arbitrato tra le rivendicazioni storiche relative a quegli eventi (§ 76, corsivi miei).

Qui, i fatti storici non sono verità definitivamente acclarate, ma materia di dibattito e oggetto di legittime contestazioni. La Corte, dunque, non può risolvere il caso sposando l’una o l’altra versione dei fatti storici, ma deve muoversi all’interno dei criteri che sorreggono l’applicazione dell’art. 10, primo fra tutti il rispetto per il pluralismo:

In ragione del fatto che la Guerra del Nagorno-Karabakh è un evento storico relativamente recente che ha comportato una significativa perdita di vite umane ed ha creato una notevole tensione nella regione e che, nonostante il cessate il fuoco, il conflitto è ancora in corso, la Corte è consapevole della grande delicatezza delle questioni discusse nell’articolo del ricorrente. La Corte è consapevole, soprattutto, che la memoria delle vittime di Khojaly è protetta dalla società azera e che la perdita di centinaia di vite di civili innocenti durante i fatti di Khojaly è una fonte di grande dolore per la Nazione ed è generalmente considerata uno dei momenti più tragici nella storia nazionale.
In queste condizioni, è comprensibile che le affermazioni del ricorrente possono essere state ritenute scioccanti o offensive dal pubblico. Tuttavia, la Corte ripete che, in considerazione del comma 2 dell’articolo 10, la libertà di espressione è applicabile non solo alle “informazioni” o “idee” che sono accolte con favore o ritenute inoffensive o indifferenti, ma anche a quelle che urtano, scandalizzano o inquietano lo Stato o una parte della popolazione. Questo richiede il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non esiste “società democratica (§ 86, corsivi miei).

La democrazia, che nella prospettiva dell’art. 17 è un bene da proteggere contro il negazionismo storico, nella prospettiva dell’art. 10 è il fondamento della libertà di ricerca storica:

La situazione nel caso di specie non è la stessa che si verifica quando la protezione dell’articolo 10 è rimossa in virtù dell’articolo 17 a causa della negazione o della revisione di fatti storici chiaramente stabiliti come l’Olocausto […]. Nel caso di specie, le questioni specifiche discusse nel “Diario del Karabakh” sono oggetto di un dibattito in corso. […] Non sembra che il ricorrente volesse negare il fatto che l’eccidio di massa dei civili di Khojaly abbia avuto luogo o che egli abbia espresso disprezzo per le vittime di questi fatti. Piuttosto, il ricorrente stava supportando una delle opinioni in conflitto nel dibattito concernente l’esistenza di un corridoio di salvataggio per i rifugiati, esprimendo l’ipotesi che qualche soldato azero possa condividere la responsabilità del massacro. Così facendo, tuttavia, egli non intendeva giustificare coloro che sono usualmente considerati colpevoli del massacro, mitigare le rispettive responsabilità o approvare le loro azioni. La Corte ritiene che le affermazioni che sono all’origine della condanna del ricorrente non costituiscono un’attività contraria all’essenza dei valori sottostanti alla Convenzione e non intendevano distruggere o restringere i diritti e le libertà da questa garantita. Ne segue che, nel caso di specie, la libertà di espressione non può essere rimossa dalla protezione dell’art. 10 in virtù dell’art. 17 della Convenzione (§ 81, corsivi miei).

Restituito al campo di applicazione dell’art. 10, il discorso storico può essere apprezzato rispetto ai contenuti, allo stato del dibattito pubblico sul punto, alle intenzioni del giornalista, fondando uno scrutinio di proporzionalità. In questo modo, la Corte si riappropria di una capacità di mediazione tra diritti e valori confliggenti, trattando il revisionismo storico come un discorso sì spiacevole – a volte ripugnante, come ogni

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lavoro di scavo nella memoria collettiva, come ogni riesumazione di un vissuto con il quale non si è giunti a riconciliarsi –, ma intimamente connesso all’esercizio delle libertà comunicative.

9. Per una conclusione: protezione delle tradizioni storiche o metodo storico critico?

Vi è una profonda ambiguità nel trattamento che la Corte europea riserva alla storia delle nazioni e dei popoli ed alla sua memoria: in tutti i casi esaminati, le vicende storiche irrompono nelle controversie giurisdizionali come fondamenti non unanimemente condivisi e pacificati, come memoria controversa, e la Corte si pone dinanzi a questi conflitti con atteggiamenti ambivalenti.

Nella maggior parte dei casi, l’argomentazione della Corte tende ad assolutizzare una narrazione storica in una tradizione storica, se non in una storia oggettiva, definitivamente stabilita ed acclarata. Che sia la storia degli orrori della seconda guerra mondiale, o la storia del riscatto dagli integralismi religiosi, o la storia della transizione dai regimi comunisti, la Corte protegge determinate narrazioni storiche selezionate quali tradizioni e fondamenti dell’ordine democraticoNella visione della Corte, la storia è spesso un luogo privato all’esercizio delle libertà pubblichein alcuni casi perfino un terreno sacrale, non calpestabile, la cui critica si risolve in abuso. Lungi dal risultare l’esito di un metodo di indagine approfondito ed aperto alla pluralità delle interpretazioni, la narrazione storica il più delle volte è usata strategicamente da una Corte alla ricerca di una legittimazione retorica poggiante su argomenti apparentemente oggettivi e fattuali42.

Non può stupire, pertanto, che l’uso dell’argomento storico susciti tante perplessità all’interno stesso della Corte. Scrive il giudice Garlicki, nella sua opinione concorrente alla sentenza Âdamson:

Noi siamo degli esperti in diritto e in legalità, ma non in politica ed in storia, e non dobbiamo avventurarci in questi due terreni se non in casi di assoluta necessità.

Personalmente non condivido questa preoccupazione, che si fonda su di una accezione semplicistica dell’interpretazione giuridica43: la Corte di Strasburgo, per le specificità che contraddistinguono la sua giurisdizione, è inevitabilmente chiamata a confrontarsi – più ancora dei giudici costituzionali – con storie e tradizioni nazionali complesse e sovente oggetto di contestazioni; molte delle clausole generali presenti nel testo della Convenzione impongono analisi storiche e contestuali. Eludere questo confronto significherebbe semplicemente opacizzare i nodi di fondo delle decisioni della Corte.
Ma raccontare la storia equivale a scriverla: benché non si possa pretendere che la Corte elabori un metodo storico scientificamente rigoroso, occorre tuttavia prendere coscienza della straordinaria delicatezza di questi passaggi argomentativi, sottoporli ad una critica pubblica serrata ed aperta, all’interno della Corte come nell’opinione pubblica, e procedere verso pratiche argomentative in grado di affinare il metodo di ricerca storica e bilanciare il peso della storia con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali.

42 R. Uitz, Constitutions, Courts and History, cit., pp. 5 e ss, spec. p. 9.
43 Sul rilievo degli elementi storici, contestuali e culturali nell’interpretazione giuridica la letteratura è sterminata: per il profilo qui considerato si veda anzitutto H.G. Gadamer, Verità e metodo, (1960), Bompiani, Milano, 2001, pp. 312 e ss., spec. 376-81 (su cui, ora, A. Ciervo, Saggio sull’interpretazione adeguatrice, Aracne, Roma, 2011, pp. 64 e ss.), quindi, almeno, P. Häberle, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura, (1982), Carocci, Roma, 2001, pp. 21 e ss., ma anche pp. 46-47, 52, 75 e ss.) e A.A. Cervati, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2009, spec. pp. 1-6, 237 e ss.

Note
1) Fonte della copia: http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:_cOfN5XaXWIJ:www.rivistaaic.it/download/uUa6aRUHROQL2j03jj9s87egv6nXwoNJaKo2Fbkh6J4/buratti.pdf+&cd=22&hl=it&ct=clnk&gl=it

Link originale: http://www.rivistaaic.it/download/uUa6aRUHROQL2j03jj9s87egv6nXwoNJaKo2Fbkh6J4/buratti.pdf

2) Qui altri posts su tale "corte":
a- La Corte europea dei diritti dell’uomo e il sistema dei due pesi e delle due misure
b- Negare la $hoah è un crimine, negare l’olocausto armeno…no! Corte europea dei diritti dell’uomo dixit!
c- L’inutile ricorso alla giustizia “europea” di Dieudonné

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Author(s): Olodogma
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Published: 2015-11-19
First posted on CODOH: April 28, 2019, 12:04 p.m.
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