Genesi e funzione del "pregiudizio" nella cultura democratica

Published: 2013-04-23

“GENESI E FUNZIONE DEL «PREGIUDIZIO» NELLA CULTURA DEMOCRATICA”

di Piero Sella

Numero 39 – l'Uomo libero – http://www.uomolibero.com

L'uso strumentale del concetto di pregiudizio - Lo scontro tra ideologia dominante e quelli che essa considera pregiudizi - La linea di pensiero e le indicazioni legislative estrapolabili dai «pregiudizi» - L'inconsistenza dottrinale e il fallimento pratico dell'utopia democratica - La «democrazia reale» al servizio dell'anti-Europa. In una strada del centro di Milano una giovane mi blocca e con un sorriso mi domanda: «Ha dei pregiudizi nei confronti dei tossicodipendenti?», «Nessun pregiudizio», rispondo prontamente. Incoraggiata dalla mia disponibilità al dialogo - dall'assenza di pregiudizi in particolare - la ragazza si fa più intraprendente e passa a chiedere una firma e del denaro. Devo a questo punto farle rilevare l'intoppo logico nel quale era inciampata scambiando per consenso la semplice assenza di pregiudizi. A questa non può essere attribuita valenza alcuna. Non implica agnosticismo e non esclude affatto scelte di campo radicali, favorevoli o contrarie che siano. L'assenza di pregiudizi è solo una disposizione mentale, uno stato d'animo, il più adatto per assicurare al processo cognitivo-decisionale razionalità e oggettività. Quanto alla tossicodipendenza, spiego alla ragazza, avevo valutato della questione sia gli aspetti antropologici che quelli estetico-morali, e tenuto anche conto dei pareri espressi in merito da clinici e sociologi. Ne era nato il convincimento - al tempo stesso fermo e libero da prevenzioni - che ad impedire un'efficace battaglia contro il fenomeno droga sia il prevalere, oggi indiscusso, dell'ideologia liberalcapitalista, con tutte le carenze politico-strutturali che da essa discendono. In quanto emanazione dell'economia, la gestione democratica della cosa pubblica è portata infatti a respingere quei livelli di partecipazione e di solidarietà che esorbitano dai suoi ben circoscritti obiettivi. In essa non può di conseguenza farsi strada alcuna proposta organica, valida per tutto il corpo sociale, non possono essere trasmesse alla comunità, ai giovani in particolare, quelle certezze di cui il vertice e privo. Mancano insomma alla democrazia la volontà e la possibilità di intervenire con la dovuta autorevolezza su tutte le articolate realtà del sociale; la sua visuale risulta sistematicamente distorta dalla ricerca del consenso, che viene perseguita in modo affannoso, attraverso un mercanteggiamento di piccolo cabotaggio, destinato puntualmente a privilegiare, su quelli comuni, interessi settoriali e individualistici. Non può stupire, con tali premesse, che le debolezze e le latitanze decisionali del sistema emergano plateali e frequenti. Emblematico è il caso dei rapporti internazionali, dove gli interessi dell'oligarchia capitalista, che si mascherano dietro la filosofia mondialista dei «diritti dell'uomo» e dell'«intervento umanitario», mettono sistematicamente fuori causa non solo le grandi questioni della libertà e del destino dei popoli, ma persino lo stesso elementare criterio della convenienza nazionale. La grande politica, in democrazia, è appannaggio dei poteri «forti» che, a pasto finito, abbandonano le briciole ai politici in subordine, deputati all'amministrazione corrente. Anche nel caso della tossicodipendenza la prassi democratica resta prigioniera dell'incapacitante schema individualista che la caratterizza: si limita a recitare filastrocche demagogiche, a surrogare un impegno vero e coraggioso con interventi improvvisati, parziali e dispendiosi, sempre in ritardo sull'incalzare del problema. E ciò anche se è del tutto evidente che la piaga non può essere eliminata dall'attivismo del volontariato e dei privati, gli sforzi dei quali - a volte generosi, altre assai meno - non possono sortire effetti migliori di quelli che farina e coperte hanno ottenuto nell'ex Jugoslavia. Ecco perché, invece di seguire con sterile pietismo le tragiche vicende dei singoli drogati, come accade nelle comunità religiose o laiche, è necessario che la lotta alla tossicodipendenza venga trasferita e mantenuta sul più alto terreno politico, educativo e del costume, nulla concedendo a chi dalla droga è ormai posseduto, né a coloro che - contigui alla loro cultura - ai drogati sono portati a fornire ogni specie di alibi. Ai tossicomani, queste dure, meditate conclusioni risultano ovviamente sgradite. Per svicolare da un serio esame di coscienza, essi preferiscono giudicarle frutto di ostili preconcetti, di malevoli stereotipi, di «pregiudizi». Bersaglio di queste nostre note vuole proprio essere l'uso strumentale e fuorviante del concetto di pregiudizio. Condannare in modo sprezzante e irritato le convinzioni dell'avversario, bollarle a priori come insensate, dipingerle quali frutto di un difettoso funzionamento cognitivo o emotivo, risulta infatti essere, nella cultura imperante, uno degli schemi dialettici preferiti. Il minaccioso «avvertimento»: «Se insisti su questo tono mostri di non ragionare, di essere vittima di condizionamenti istintivi, ti metti da solo fuori gioco», esce puntuale dalle labbra dei democratici «doc», a suggellare la rottura del dialogo non appena emerge la «diversità» dell'interlocutore, non appena lo si coglie sintonizzato su una lunghezza d'onda sospetta. Ma se l'antagonista, a sostegno delle sue tesi, appare in grado di portare unicamente elementi privi di razionalità - i pregiudizi appunto - perché rispondere con un'anatema, con una squalifica tanto apodittica quanto generica e inarticolata? Anziché troncare il discorso dopo poche battute, non sarebbe più redditizio accettare la discussione, esporre con pacatezza il proprio punto di vista e tentare il recupero del reprobo? Come mai il demoprogressista respinge questa scelta? Non si tratta tanto di un atteggiamento spocchioso e arrogante, quanto piuttosto di una mossa tesa a negare risonanza e quindi agibilità alle tesi dell'opposizione. È una strategia che svela la rabbiosa volontà di semplificare a proprio vantaggio il panorama culturale; sulle sue interpretazioni chiave della realtà, sulle questioni ritenute di importanza vitale, il liberale non tollera sfide e preferisce soffocare il dissenso ancor prima che questo riesca a manifestarsi. Il «pregiudizio» è una delle armi adatte alla bisogna: impugnato a mo' di telecomando, permette di oscurare, sul video della politica, il «programma» dell'avversario. Né l'ostracismo democratico si limita a colpire quelle posizioni teorico-dottrinali che rischiano di aprire pericolose falle nello scafo della sua ideologia. Non accetta neppure - il timore è quello di vedere messi in discussione consolidati, preziosi luoghi comuni - di prendere in considerazione specifici fatti storici, oltreché dimensioni e circostanze degli stessi. Un esempio di ciò è lo stupefacente rifiuto di confrontarsi col Revisionismo. Su certe tematiche, quali la «colpa» della Germania e la questione dell'Olocausto e, all'interno di quest'ultima, il controverso nodo dell'esistenza e del funzionamento delle camere a gas, la ricerca della Verità è ostacolata, di fatto impedita. Porre interrogativi è a priori considerato scandaloso. Le ricostruzioni ufficiali non possono essere sottoposte a verifica; vanno accettate a scatola chiusa. Lo sponsor dal quale il dogma è patrocinato ha posto sull'argomento un vero e proprio copyright, nel cui àmbito, agli «esterni», sono consentiti esclusivamente chiose e commenti agiografici. Violentata da questa prassi terroristica - che nega alla ricerca ogni rispetto metodologico e che, dichiarando vere per legge semplici congetture, giunge a considerare atti eversivi penalmente perseguibili la discussione, la critica, il confronto di cifre, di fonti e di date - la storiografia è messa al servizio degli interessi dominanti, incanalata a seguirne la logica. Ecco dunque i «democratici» da un lato atteggiarsi con gnomico sussiego a tutori della tolleranza e del pluralismo, a paladini di tutte le minoranze emarginate, dall'altro lanciare scomposte scomuniche e liquidare come pregiudizio tutto quanto non trova spazio nella loro angusta costruzione ideologica. Poiché a queste sortite manca però qualsiasi supporto scientifico o quantomeno logicodialettico,ai portatori di «pregiudizi», qualora fosse loro assicurata una par condicio, risulterebbe assai facile ribattere punto su punto e mettere in crisi tutto il retroterra filosofico,culturale e politico del sistema. Diventa allora indispensabile, per i campioni della democrazia e del cosmopolitismo, proteggere da ogni spiffero critico il fragile mondo di cartapesta nel quale si agitano. È necessario censurare il pensiero dell'antagonista, escludere dal dibattito, mettere nell'impossibilità di esprimersi, tutti quei cervelli la cui visione del mondo appare - secondo illoro metro - viziata da eresia. Per assicurarsi l'esclusiva della elaborazione culturale e politica, per essere certi che vengano stampati e consumati solo libri e giornali della loro area, per proteggere i sudditi dal contagio,essi si avvalgono delle posizioni di potere di cui - a dispetto del proprio strombazzato garantismo - si sono con destrezza impossessati. Presa a modello la vecchia Inquisizione questi colpevolizzatori per partito preso si ergono a giudici inappellabili del lecito e dell'illecito, e non esitano a scatenare l'informazione giornalistica e televisiva, l'editoria di regime sovvenzionata col pubblico denaro, le forze di Polizia e la Giustizia, alla caccia di tutte quelle opposizioni che non siano meramente di facciata. In questo scenario orwelliano nel quale gli uomini del sistema presidiano ogni significativa sfumatura dello spettro culturale consentito, i «cattivi» non possono avere dalla loro altro che «pregiudizi»; sui quali - è tautologico - sarebbe dispersivo ed incoerente approfondire o dibattere. Per loro basta la Digos. Ci pare a questo punto doveroso scendere nel dettaglio e tentare di mettere ordine nel ripostiglio dove là cultura di regime ha frettolosamente ammucchiato i «pregiudizi». Sembrerebbe scontato che, ad un esame appena attento, oggetti di indagine qualificati già in partenza come irrazionali debbano confermarsi un cumulo di farneticazioni e che ogni tentativo di classificare i pregiudizi, ogni sforzo per inquadrarli concettualmente, sia destinato a sfociare in un nulla di fatto. Sorprendentemente però, nel ripostiglio, l'entropia risulta fin da subito inferiore al previsto; tutti i pregiudizi sono infatti riconducibili a un'unica, organica categoria: non ve n'è uno solo che la cultura dominante non abbia accollato alla Weltanschauung totalitaria, (di fatto alla cosiddetta «mentalità fascista»). È una constatazione questa che consente all'indagine di fare un passo in avanti, e di identificare il collante che lega fra loro tutti i «pregiudizi». Il marchio unificante, il comun denominatore, la pietra filosofale che trasforma un'idea in pregiudizio è unicamente la mancata accettazione del principio ugualitario. E poiché l'intera galassia demo-mondialista gravita proprio attorno al «buco nero» dell'ugualitarismo, è comprensibile che l'intellettualità del sistema sia scesa in campo con tutti gli anticorpi a sua disposizione per bloccare l'infezione, per connotare negativamente i «pregiudizi» e con essi la sostanza politica e ideale che vi è sottesa. È una crociata ideologica, quella tesa all'omologazione planetaria, che, dai centri di potere occupati dai vincitori del secondo conflitto mondiale, è stata condotta negli ultimi decenni senza interruzione e senza risparmio di colpi e ha lasciato il segno nelle istituzioni, nella legislazione, ma anche nella coscienza e nel linguaggio comuni. È così che il reale significato di espressioni quali, ad esempio, «razzismo» o «antisemitismo», risulta oggi alla portata di pochi uomini liberi. Ancora minore, è ovvio, il numero di coloro che questo reale significato trovano il coraggio di esternare sfidando gli strali di quella cultura dominante che non esita a condannare come pregiudizio qualsiasi deviazione dai propri schemi. I non allineati sembrerebbero dunque esclusi dal gioco. E tuttavia, a chi nella cortina di disinformazione che grava sul nostro vivere ancora riesce a orientarsi e a sottrarsi al mito progressista, al dilagante materialismo, alla pregiudiziale laicista, non dovrebbe essere impossibile riconoscere nei «pregiudizi» quella linea di pensiero che cerca di assicurare e conservare a popoli e individui, in ragione delle loro peculiarità etniche, linguistiche, culturali, religiose e personali, i dovuti spazi di libertà «su misura». È un discorso che vale per il razzismo, il nazionalismo etnico ed economico, l'integralismo religioso, l'antisemitismo e l'antisionismo, ma anche per il totalitarismo, l'autoritarismo e persino per il maschilismo. Tutte queste posizioni, maledette dall'ortodossia democratica, si sono infatti conquistate la qualifica di «pregiudizio» proprio perché, ai vari livelli, rigettano l'appiattimento liberticida, l'omologazione mondialista, la «ricetta» americana. Perché ciò risulti chiaro, come accade per un vecchio dipinto dal quale, per stabilirne epoca ed autore, è necessario rimuovere le incrostazioni, così dei «pregiudizi» è essenziale siano recuperate le linee di pensiero originarie. Ad operazione di restauro ultimata, il «pregiudizio» razzista, alleggerito delle connotazioni di violenza e di sopraffazione che oggi gli sono interessatamente accollate, risulterebbe coincidere con sentimenti universalmente diffusi e condivisi. Cosa può essere infatti eccepito se ciascun popolo vuol tutelare la propria esistenza dalla mortale minaccia del cosmopolitismo? Se le nazioni che hanno coscienza di sé si mobilitano per sbarrare la strada a quell'imbastardimento biologico e culturale che, come risultato finale,conduce alla società multietnica? Nulla. Tanto più che se il razzismo si prefigge e persegue la difesa di un'identità, esso deve ovviamente contemplare anche il mantenimento ed il rispetto delle identità altrui, la diversità delle altre razze. Ciascuna delle quali è libera di apprezzarsi, di essere orgogliosa di quel che è. Né ci sembra trascurabile il fatto che, se questa sensazione di fierezza è presente in un popolo, essa, nei singoli che ne sono portatori, è alla radice di comportamenti sicuramente positivi, utili per il gruppo, a cominciare da un costume, da uno stile di vita che tende ad escludere tutti gli aspetti di asocialità, di trascuratezza, di volgarità, di mediocrità, di debolezza. Il «razzismo» rappresenta dunque non solo un baluardo contro il tentativo mondialista di «frullarsi» i popoli, ma è anche un manuale di grande utilità contro l'edonismo, il lassismo, gli eccessi individualistici di una società - quella democapitalista - troppo prospera, troppo pavida, troppo borghese. La revisione semantica deve operare anche nei confronti del nazionalismo etnico ed economico. Questo tipo di «pregiudizio» è in realtà la cerniera difensiva insostituibile delle sovranità nazionali contro il disegno di sopraffazione pianificato dagli strateghi del governo mondiale e benedetto dai sacerdoti dell'affarismo. Quanto alle disprezzate posizioni del fondamentalismo e dell'integralismo religioso, è evidente che esse sono la bandiera attorno alla quale si raccolgono i tradizionalisti nella lotta contro il dilagare di quell'ecumenismo teologico-liturgico che tutto accetta di mettere in discussione e che, di anno in anno, sottrae al Sacro millenarie certezze. L'antisemitismo a sua volta, sfoltito delle enfatizzazioni e delle strumentalizzazioni emotive con le quali si cerca oggi di demonizzarlo, rientrerebbe in una categoria assai meno drammatica, configurandosi come un semplice aspetto di quella reazione di rigetto che ogni popolo immancabilmente oppone alla penetrazione dello straniero. Ed il vigore con cui questa reazione si è manifestata - in ogni tempo della storia e in ogni luogo dove abbiano vissuto ebrei - è senza dubbio proporzionato all'eccezionale livello di organizzazione dell'ospite. Un ospite sui generis, che ufficialmente chiede di essere trattato come tutti gli altri, ma che, pur dotato di cittadinanza, punta tutto sulla «diversità», si autoesclude dalla vita della nazione nella quale vive, e non si accontenta delle comuni libertà civili, ma di continuo pretende, si agita alla ricerca di privilegi, esige attenzioni particolari. Attenzioni che non possono essere negate a chi ha finalmente conseguito il riconoscimento ufficiale di «vittima» in servizio permanente effettivo. Ma l'attivismo, indubbiamente razzista, del «popolo eletto» - fisiologico quando si voglia a tutti i costi mantenere distinta in un paese straniero una particolare minoranza, in pratica impedirne l'assimilazione - va però al di là di questo pur rilevante obiettivo. Grazie alle posizioni che occupa nelle singole nazioni, ai collegamenti con Israele e con le varie comunità della diaspora, l'ebraismo riesce a condizionare il mondo economico e finanziario e, attraverso la capillare, preponderante presenza nella cultura, nello spettacolo e nell'informazione, a porre grosse ipoteche sui vertici politici. Al punto che risulta oggi impensabile scendere nell'arena politica se non dopo aver espresso una totale, deferente attenzione verso i vertici sionisti e verso tutti gli ebraismi locali. È una realtà che nessuno può negare, men che meno nel nostro Paese. Tutti quei raggruppamenti politici - di destra e di sinistra - che avevano qualche velleità di governo, hanno infatti dovuto preliminarmente manifestare i propri buoni propositi alle figure più rappresentative del giudaismo. La signora Zevi e il rabbino Toaff - unitamente agli ambasciatori di Stati Uniti ed Israele incaricati di filtrare le ambite visite di investitura a Washington e a Gerusalemme - sono diventati ormai a Roma delle vere e proprie figure istituzionali che concedono udienze, prendono atto delle dichiarazioni di intenti dei postulanti, danno pareri, «consigli», e preziosi attestati di buona condotta. Ma ricevono anche scuse dai pentiti e, quand'è il caso, dopo lunghe, snervanti trattative, si degnano di assolvere i pellegrini scesi a Canossa - ivi inclusa la stessa Chiesa cattolica. È facilmente comprensibile a questo punto perché l'antisemitismo non sia ritenuto oggigiorno argomento degno di studi e di serie ricerche e si preferisca invece liquidarne frettolosamente le cause attribuendole ad un provvidenziale deus ex machina che tutto dovrebbe risolvere, ma che in realtà nulla spiega: il pregiudizio - ovviamente irrazionale - degli antisemiti. Ma anche l'antisionismo - che si sostanzia nella contestazione dell'insediamento ebraico in terra palestinese - sarebbe un «pregiudizio». Quell'etica anti-colonialista cui tutti gli altri Stati del mondo hanno accettato di conformarsi, a Israele non sarebbe applicabile. Lo stato ebraico, che fin dalla sua nascita si regge in Palestina sulla forza delle armi, sulle deportazioni e sull'oppressione della popolazione autoctona, può anzi tranquillamente farsi beffe di quegli stessi provvedimenti dell'ONU che ad altre nazioni- meno elette - sono costati pesanti sanzioni economiche o addirittura sanguinose repressioni militari. Anche la scelta totalitaria, autoritaria e maschilista, additata come riprovevole pregiudizio, è in realtà nella norma. Essa risulta infatti assolutamente in linea con quell'intelaiatura selettiva e gerarchica che è riscontrabile in tutto il vivente. Ogni gruppo ha bisogno di un capo cui fare riferimento, un capo nel quale identificarsi e che ne esalti i sentimenti di forza e compattezza. Non vi è organizzazione che possa prescindere da una struttura dirigente. Nessuna massa è concepibile senza una èlite. In quest'ottica, naturalmente ordinata e perciò aristocratica, è logico siano visti con grande preoccupazione la progressiva disgregazione del tessuto sociale e familiare, la confusione dei ruoli tra i sessi, il rapido tracollo del costume, conseguenze tutte dell'esasperata spinta della demoplutocrazia verso l'individualismo e il consumismo. Nei «pregiudizi» di cui ci siamo occupati sono dunque presenti principi-guida collaudati e regole di vita rispettose della natura dell'uomo. E da essi sono estrapolabili indicazioni legislative capaci di dare risposte organiche e funzionali ai problemi della società. Ignorare questa realtà, o eluderla col sostenere che la specie umana sarebbe «progredita», «cambiata»,e risponderebbe oggi a pulsioni diverse, che la renderebbero bisognosa di schemi comportamentali nuovi, denota solo il rifarsi degli intellettuali di regime a convincimenti di tipo ambientalista che appartengono all'infanzia del pensiero moderno e sono negati dalla più recente ricerca scientifica. Ma quali obiettivi di concreta rilevanza sarebbe in grado di cogliere una comunità che decidesse di organizzare uno stato orientandolo proprio sulle idee, sui «pregiudizi» condannati dalla democrazia? Ne elenchiamo alcuni. Verrebbero aperte le porte innanzitutto a una rappresentanza politica e ad una gestione della cosa pubblica finalizzate alla tutela del patrimonio etnico, culturale ed economico della nazione e coerenti con quei principi di autorità e di gerarchia selettiva dai quali soli possono discendere autonomia, responsabilità personale e quindi autentica valorizzazione dell'individuo. Questi principi, che inchiodano l'uomo alle proprie azioni e chiudono la strada al debole, al vile, all'incapace, pur riconosciuti come imprescindibili per il buon funzionamento di ogni tipo di aggregato sociale - nel mondo del lavoro e dell'economia come in quello della scienza e della cultura, nei rapporti affettivi e di comunicazione interpersonale come nell'agonismo sportivo - sono respinti nei paesi democratici per quanto attiene alla sfera politica. Ci si accontenta infatti, nel progredito Occidente, del criterio - tanto grossolano da apparire sconcertante - della prevalenza numerica. È una scelta, quella democratica, che, in quanto subordina la libertà all'uguaglianza, conduce a risultati massificanti e demagogici. Da essa nascono l'anonimato e l'irresponsabilità decisionale. La democrazia, incapace com'è per sua natura di selezionare un'aristocrazia di governo, è semplicemente, nel politico, l'equivalente di quel che in àmbito economico è stata l'utopica proposta del collettivismo marxista. Ciononostante, gli uomini del grande capitale, i campioni della libera iniziativa e del più sfrenato darwinismo sociale, hanno storicamente operato proprio per l'avvento di questo sistema, un sistema che, in linea teorica, avrebbe dovuto porli alla mercé del numero. Essi avrebbero volontariamente rinunciato al potere per consegnarlo a classi che non lo pretendevano, e che neppure si presentavano come una minaccia, non avendo i mezzi economici, politici e culturali per impossessarsene. È un comportamento questo tanto autolesionistico e contrario all'umana natura da risultare incredibile, se non potesse essere spiegato in modo diverso. Di fatto la vecchia classe dominante, attenta all'evolversi della realtà economico-produttiva ed ai suoi riflessi sulla dinamica sociale, ha pensato di potersi mantenere in sella anche nel «nuovo» attraverso l'invenzione di un gioco diverso: quello democratico, un marchingegno che si prospettava congeniale non per le sue regole ufficiali,accattivanti e demagogici specchietti per le allodole, ma per quelle che, in modo sotterraneo e truffaldino, era sicura di poter imporre. L'oligarchia capitalista proclama insomma il proprio rispetto per la volontà degli elettori, è schierata per la democrazia perché questo è il regime che con maggior facilità riesce a pilotare. La grande finanza si appoggia con fiducia al parlamentarismo in quanto è conscia di avere i mezzi per formare e imporre le dirigenze politiche, ma soprattutto per condizionarle e,quando necessario, aggirarle e sostituirle. I suoi strumenti economici, la sua poderosa macchina informativa e propagandistica, sono infatti in grado di stroncare sul nascere ogni genuino conato di sovranità popolare, qualsiasi tentativo di sottrarre dalle mani della plutocrazia il controllo della cosa pubblica. Che, al di là di queste riflessioni, un ripensamento sulla gestione odierna dello Stato sia indilazionabile lo dice la stessa insoddisfazione constatabile tanto sul fronte democratico che su quello marxista. È frenetica in Occidente la ricerca di correttivi istituzionali e della rappresentatività - maggioritario, presidenzialismo - che consentano un più marcato decisionismo. Nei superstiti regimi comunisti - Cina, Cuba - in cui questo decisionismo esiste, ma è al servizio di una fallimentare impostazione dell'economia, si avverte invece la necessità di giungere ad un compromesso liberista. È il riconoscimento implicito di due fallimenti che nascono da uno speculare errore concettuale. Se in campo democratico si ammette il bisogno di rivedere i paralizzanti aspetti politici dell'ideologia, ritoccandola, tanto per intenderci, in senso autoritario, e se è altrettanto evidente la tendenza del marxismo di modificare in funzione di una maggiore produttività le sue impostazioni economiche, è allora chiaro che la ragione sta dalla parte di chi, fin dall'inizio, aveva compreso la necessità di far marciare di pari passo, con lo stesso criterio di libertà e di realismo, politica ed economia. Quanto alla politica estera - rimossa ogni altra diversa e fuorviante considerazione - le nazioni europee dovrebbero puntare alla eliminazione di tutte quelle servitù che affondano le loro radici nella sconfitta patita nel conflitto '39-'45, servitù che, nell'attuale situazione internazionale, non trovano più giustificazione alcuna. Ci riferiamo all'assurdo mantenimento in vita della Nato, alla dannosissima e pericolosissima politica anti-araba imposta da oltreoceano, ai vincoli finanziari e commerciali cui le nazioni europee hanno dovuto piegarsi sotto la pressione egemonica degli Stati Uniti. Dalla mutata collocazione internazionale, dal passaggio dalla sudditanza alla sovranità, discenderebbe per l'Europa in modo automatico una diversa e maggiore attenzione ai propri interessi economici, che dovrebbero essere finalmente anteposti a quelli della grande finanza. Questa infatti, per avere via libera, per cogliere l'obiettivo del libero mercato planetario, punta a scardinare qualsiasi resistenza locale capace di opporsi a scelte di logica meramente economica. Con questo obiettivo è di recente nato, a Marrakech, il WTO, l'Organizzazione Mondiale del Commercio. Ne spiega in modo assai esplicito i fini il Corriere della Sera del 16 aprile '94 titolando: «Tutti i governi dovranno rispettare le regole del Libero Scambio: altrimenti saranno puniti». È attraverso un meccanismo del genere - tra i suoi corollari c'è anche la libera circolazione della mano d'opera - che, persa ogni volontà di autosufficienza e ogni capacità di difendere la propria indipendenza, i vari Stati della Terra, attraverso una fase di crescente promiscuità etnica ed economica, saranno condotti alla morte per entropia. La risposta dei popoli contro l'aggressione mondialista deve perciò contemporaneamente articolarsi sulla politica estera e su quella economica, con l'obiettivo di conservare il massimo di autonomia possibile. Ogni Stato dovrà sviluppare la propria politica estera unicamente in funzione dei propri interessi, cercando intese internazionali, dando vita a blocchi di Stati, solamente con quelle nazioni che nella stessa area perseguono i medesimi fini geostrategici. Quanto alla dinamica economica interna, se la libera iniziativa - a causa delle dimensioni degli obiettivi di sviluppo fissati dallo Stato, o perché le condizioni del mercato non garantiscono al capitale la remunerazione da questo desiderata - non è in grado di soddisfare quelle necessità produttive indicate dalla programmazione, le strutture pubbliche dovranno intervenire con la massima tempestività, operando nel campo produttivo, se del caso, anche direttamente. Se è scontato che gli uomini del mondialismo si muovano a favore della più sfrenata deregulation e si battano per le cosiddette «privatizzazioni», per liquidare qualsiasi industria e qualsiasi sistema infrastrutturale controllato dallo Stato e quindi potenzialmente indipendente dalle centrali della finanza internazionale, non è detto che la loro volontà - e quella dei politici al loro servizio - debba essere legge. Un'attenta valutazione dell'interesse nazionale dovrà dire quali settori della produzione e dei servizi siano da conservare, da acquisire dallo Stato o, quantomeno, da controllare strettamente. Ci pare evidente, per uscire dal generico, il preminente interesse pubblico su quelle attività -oggi «autonome» - della Banca Centrale che incidono sulla liquidità, sul costo del denaro, addirittura sul regime dei cambi. Una svalutazione, se è ovviamente vista con favore e quindi incoraggiata dai grandi gruppi interessati all'esportazione - la Fiat, ad esempio - mette lo straniero in condizioni di operare,con la sua moneta rivalutata, in posizione assai vantaggiosa. Di questo genere di espediente,escogitato per favorire il singolo a danno della comunità, sta pagando giornalmente lo scotto la nostra economia. Di un processo analogo sono stati vittime gli USA quando, svalutato il dollaro per sfondare sui mercati giapponesi, hanno invece visto i nipponici scavalcare il Pacifico con il loro yen pesante e acquistare «a saldo» negli Stati Uniti industrie e immobili. Superfluo pare il dilungarsi sull'importanza della grande viabilità e dei trasporti, delle telecomunicazioni, dei mezzi di informazione, nonché dell'industria degli armamenti, con particolare riguardo ai rami cantieristico e aerospaziale. Ma altrettanto vitali devono essere considerati l'educazione nazionale, la ricerca scientifica e lo sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie. Dopodiché resteranno ai privati migliaia di altre attività nelle quali esprimere, in assoluta libertà, e senza alcun pericolo per la collettività, tutto il loro talento creativo e manageriale. Risulta a questo punto utile una puntualizzazione sulla questione del libero mercato. In un mondo in cui l'unica divinità rispettata è il denaro, la concorrenza, che è il presupposto di uno spendere oculato, appare un vantaggio tanto intuitivo da non concedere spazio a chi intende distinguere caso da caso. Per documentate che siano, le riserve sul dogma liberista non riescono a sfuggire alla sprezzante qualifica di pregiudizio. È vero che un regime di totale libero mercato determina per i consumatori vantaggi immediati. Quando le industrie locali non sono in condizione di offrire prodotti di buona qualità ad un prezzo giusto, subentra la concorrenza straniera. Ma non è detto che i prodotti importati siano di per sé migliori ed economicamente più convenienti. Il più delle volte lo diventano grazie a politiche di tipo protezionista, attraverso le quali le industrie produttrici vengono messe in condizione di battere la concorrenza internazionale. È questa, al di là di qualsiasi vaniloquio liberista, una realtà che caratterizza tutta la grande industria delle oligarchie demo-liberal-capitaliste. I più forti gruppi industriali - grazie al controllo dei media giornalistici e radiotelevisivi coi quali incanalano l'opinione pubblica e ricattano i governi - sono infatti in grado di ottenere dai politici grossi trasferimenti di denaro pubblico. Rastrellato dallo Stato sotto forma di tasse e di prestiti, e sottratto agli investimenti, il denaro viene in parte destinato alle imprese come contributo a fondo perduto che, basti pensare alla nostra cassa integrazione, è destinato a ridurre i costi, a diminuire in tempo di crisi le perdite, ad accrescere i ricavi. Se dunque in un contesto internazionale, dove la violazione delle leggi di mercato è la regola,vi sono Stati che unilateralmente respingono come aberrante ogni politica selettivamente autarchica, di difesa della propria realtà produttiva e dei propri lavoratori, essi si vedranno progressivamente estromessi, entro le proprie frontiere, da quei settori nei quali l'operatore straniero si muove in condizioni di favore. Ma il consentire all'operatore straniero di sgomitare nei settori chiave dell'economia è il primo passo in direzione di un regime di protettorato. Per non favorire questi piani egemonici, per difendere la propria sovranità,occorre abbandonare ogni forma di castrante integralismo liberistico. Ci sono industrie, tutte quelle che producono alta tecnologia - ad esempio nei settori petrolchimico e informatico - di cui un Paese, se ritiene vitale salvaguardare la propria indipendenza, deve assolutamente disporre. E deve averle sul suo territorio, e farle funzionare se necessario anche a dispetto delle leggi di mercato per le quali costerebbe meno impiantarle all'estero o importarne i prodotti. Da questa scelta, coraggiosa e costosa, ma pagante, perché il sacrificio economico è il prezzo per la libertà di tutti, sono esentati - vale a dire possono tranquillamente orientare la propria economia sulla globalizzazione - solo quei paesi dei quali è proprio il muoversi a tentoni nella storia, che non nutrono ambizioni di autonomia, non posseggono né la volontà, né la capacità di porsi una meta. Non è certo il caso dell'Europa. Ma le conseguenze di un appiattimento sulle posizioni del libero mercato non si limitano alla questione della sovranità. Accettare la dipendenza dall'estero comporta anche concrete conseguenze economiche negative, quali il calo della produzione nazionale, lo squilibrio nella bilancia dei pagamenti e l'inevitabile crescita della disoccupazione. È una crisi, quella che nasce dall'erosione della produzione interna, destinata fatalmente a coinvolgere proprio quei consumatori che con la scelta liberista si era detto di voler tutelare. Il libero mercato non favorisce pertanto tutte indistintamente le attività, ma unicamente ristrette categorie di operatori e precisamente quelle interessate alla mondializzazione della produzione e dei traffici. Il libero mercato è la riserva protetta delle multinazionali che, esportando i loro utili, succhiano dai vari Paesi ricchezza a danno delle economie locali, e del grande commercio, monopolizzato da una minoranza ricca e cosmopolita. A chi deve pagarne le spese, la ricetta liberista viene esaltata e descritta, dai grandi mezzi di informazione, come miracolosa. In realtà lo è, ma solo per i proprietari, o i controllori dei media, gli stessi cui - guarda caso - fanno capo multinazionali e grande distribuzione. Quanto ai diritti individuali, anch'essi dovrebbero essere attentamente passati al setaccio, per accertarne la compatibilità con le esigenze più vaste della collettività. Severa attenzione, nell'interesse dell'ambiente, dovrà essere posta ai consumi maggiormente responsabili dell'inquinamento e dell'imperdonabile spreco delle risorse naturali. Ma sarà soprattutto essenziale che la tutela di categorie e di individui socialmente non meritevoli, così come di gruppi estranei alla comunità nazionale, venga considerata assolutamente secondaria e qualsiasi intervento pubblico in quella direzione attuato solo una volta acquisita la sicurezza che non abbiano a nascerne di ritorno effetti negativi. Le categorie da «sacrificare» sono evidentemente quelle suscettibili di creare problemi a un'armonica convivenza civile e che, senza fornire contributo alcuno allo sviluppo della comunità nazionale, rappresentano anzi un peso per il pubblico erario, nonché fonte di turbamento sociale e del costume. Ci riferiamo, per essere più chiari, a immigrati clandestini,zingari, apolidi, obiettori di coscienza, ai membri di associazioni segrete o di sette religiose contrassegnate da particolare asocialità, oltre che naturalmente a tutta quella corte dei miracoli costituita da travestiti, omosessuali, transessuali e tossicomani, veicolo tra l'altro di pericolose malattie. Per sottolineare l'attualità di quanto rilevato è il caso di ricordare come da più parti politiche -cattolici e progressisti in testa - si stia reclamando l'estensione dell'assistenza medica agli immigrati clandestini e, con lo stesso criterio, si insista per la concessione del diritto di voto agli stranieri. Né c'è da stupirsi che lo Stato dei partiti, nella sua smania clientelare, si spinga sempre più in là nella paranoica tutela dei più stravaganti capricci individuali. Si mettono alloggi pubblici a disposizione di coppie omosex, e ci si appresta a concedere, a famiglie di tal fatta, diritti di ogni genere, tra cui ferie matrimoniali, pensioni di reversibilità, capacità di adottare. Per non parlare dei demenziali e gratuiti interventi medici, finalizzati, è cosa recente, ad assicurare figli a coppie di lesbiche o al cambiamento di sesso. A quest'ultimo proposito siamo del parere che la legge che impone alla magistratura di disporre la correzione dei documenti anagrafici degli operati sia non solo incostituzionale, ma configuri addirittura il favoreggiamento nel reato di sostituzione di persona. Tra le ultime mostruosità legislative di questo filone vanno ricordati il provvedimento per cui la tossicodipendenza non può essere considerata legittima causa di interruzione del rapporto di lavoro, il decreto in base al quale i drogati abituali vengono equiparati - agli effetti dell'esenzione dal ticket sui medicinali - ai grandi invalidi di guerra, e la legge 222 del 14 luglio 1993 in base alla quale al reato commesso da persone affette da Aids non è applicabile la pena della reclusione. «Non potete farmi niente perché ho l'Aids» dice all'agente che lo ha sorpreso con tre chili di cocaina addosso (Il Giornale del 29 settembre 1994). Tutto ciò mentre nessuna tutela è oggi operante a difesa della salute pubblica, un bene che andrebbe invece salvaguardato con estrema severità a vantaggio delle generazioni future. (Cfr. la sezione Delitti contro la Integrità e la Sanità della Stirpe del vecchio codice fascista artt. da 545 a 555). Nessuna misura viene presa contro il dilagare dei vari tipi di prostituzione, ormai quasi totale monopolio dei clandestini di colore, vere e proprie mine batteriologiche vaganti. Né qualcosa di serio fa lo Stato per combattere 1'Aids. E questa è la sua linea di condotta perché schedare e isolare i portatori - in Italia ormai 100.000! - così come da sempre la scienza medica impone nel caso di epidemie per le quali non esiste una cura, sarebbe contrario ai «diritti dell'uomo», poco democratico insomma. Chi chiede che dai morbidi consigli veicolati attraverso costosi spot televisivi si passi a severi controlli, almeno negli ospedali, nelle prigioni - dove i tossicomani sono oltre il 30% dei reclusi - nelle caserme e nei più affollati ambienti di lavoro, non si muoverebbe, secondo i Soloni della democrazia, contro un pericolo reale, ma sarebbe semplicemente vittima di un «pregiudizio». Ed è proprio seguendo questa pseudo-logica che lo Stato, invece di combattere 1'Aids, spende soldi ed energie per sradicare il «pregiudizio», incurante del fatto che - anche questa volta - il «pregiudizio» coincida con l'opinione dei più preparati, col buon senso, con la morale, in sostanza con l'interesse di tutti. Ma non basta, alla benemerita categoria dei tossici, la pubblica amministrazione mette gratis a disposizione le siringhe ed ai malati di Aids versa un sussidio giornaliero, in modo che siano loro risparmiate preoccupazioni economiche e possano restare in libera circolazione più a lungo. Sempre sul tema del danno sociale derivante da errate scelte di orientamento individualista, una diversa valutazione delle cose consentirebbe di razionalizzare il ruolo pubblico nel campo della sanità. Mettendo in primo piano il controllo e la prevenzione, sarebbe possibile ridurre le enormi spese oggi destinate all'assistenza dei soggetti affetti da tare ereditarie. Né si tratta di cosa da poco: in Italia ne nascono ogni anno ben 25.000. Identico il motivo per cui dovrebbero essere rivisti i criteri che oggi convogliano risorse economiche e sforzi di ricercatori e medici nel vicolo cieco dei trapianti. È un indirizzo teso a soddisfare la smania di sperimentazione dei chirurghi e la sete di guadagno delle multinazionali farmaceutiche e che si fa strada solleticando negli individui il naturale istinto di sopravvivenza. I «beneficati» sono però ingannati per quanto attiene alla qualità della vita ottenuta in più, ma, è questo l'aspetto più grave della cosa, è anche certo che la diffusione di questo tipo di «cura» è destinato a provocare nelle generazioni future un peggioramento del livello medio di salute. Geni responsabili di gravissime malattie vengono infatti artificiosamente aiutati a sopravvivere e trasferiti in una prole che mai sarebbe riuscita a nascere. Due soli esempi dall'attualità (agosto 1994) presentati come al solito dalla stampa in modo trionfalistico: una donna col fegato trapiantato ha messo al mondo un figlio; un'altra donna di sessant'anni e il figlio di trenta, affetti non a caso dalla stessa malattia, sono stati entrambi sottoposti al trapianto del cuore. Un mutamento di rotta potrebbe dare giovamento, sia quantitativo che qualitativo, a quel gran numero di malati che sono oggi seguiti in modo del tutto inadeguato. Se dunque i «pregiudizi» contro i quali l'ideologia democratica si scaglia con livore non risultano avere i requisiti di un vero pregiudizio - mancanza di riscontro nella realtà, carenza di supporti logici e scientifici - ed è anzi dimostrato che essi costituiscono un corpo organico di idee in grado di offrire alla società rimedi non demagogici per i suoi problemi, allora ogni sbrigativa condanna dei cosiddetti «pregiudizi» e di quanti mostrano di averne colto il messaggio, va cassata e rivista. Ma non è sufficiente. Come accade in quei processi nei quali l'imputato è riconosciuto innocente e tocca agli accusatori rispondere del reato di calunnia, così saranno la costruzione politica liberal-democratica e gli interessi cui essa fa da paravento, a esser messi in discussione. E proprio i criteri di giudizio oggi più comunemente accettati dovranno essere vagliati per accertare se non appartengano all'aborrita categoria degli infondati preconcetti. L'esito dell'operazione è facilmente prevedibile: non si vede come da una linea di pensiero ancorata a vacue astrazioni intellettualistiche, come quella demo-liberal-progressista, possano discendere direttive sensate e realizzazioni funzionali. I risultati sconfortanti della democrazia reale sono del resto sotto gli occhi di tutti, al punto che molti cominciano a capire che lo spettacolo di incompetenza, di clientelismo, di commistione tra politica e malavita organizzata, al quale con profondo disgusto hanno dovuto assistere non rappresentava - come si sta cercando di far loro credere - una degenerazione della democrazia, ma la democrazia nella sua essenza più autentica. E tempo ormai che quel clima di indisturbata auto-celebrazione nel quale il sistema ha potuto sinora sopravvivere, cominci a cedere il passo a valutazioni più critiche. L'epurazione degli uomini del vecchio regime, annidati come solida maggioranza nelle dorate roccaforti giornalistiche e radiotelevisive, è ovviamente la premessa perché questa nuova fase possa decollare. Dell'ottusa prevenzione ideologica - vero e proprio pattume culturale - tuttora in circolazione hanno offerto un campione, nella stessa giornata (2 marzo 1994) Oliviero Beha a Radio Zorro e, sul Corriere della Sera, Isabella Bossi Fedrigotti. Quest'ultima rispondeva ad una giovane lettrice, redarguita dai genitori perché si era fatta accompagnare a casa da un amico negro. Ebbene, la giornalista, con stupefacente superficialità, invitava la ragazza a non dar troppo peso alla cosa: «I suoi genitori hanno evidentemente ancora dei pregiudizi.». Il Beha dialogava invece con un'ascoltatrice la cui abitazione era stata svaligiata dagli zingari. La donna esprimeva tutto il suo disappunto perché costoro, pur colti sul fatto, non erano stati arrestati, perché la loro identità non era in alcun modo accertabile e perché le forze dell'ordine - in mancanza di leggi adeguate - confessavano di non essere in condizioni di arginare le endemiche scorrerie dei nomadi. Allo sfogo della malcapitata contro la latitanza dello Stato, anche qui complice della criminalità, il Beha se ne esce severo: «Non vorrà dire che tutti gli zingari sono ladri?». Bacchettata sulle dita, la signora si ritira in buon ordine e: «Nooo, non ho di questi pregiudizi». Al che il Beha, rassicurato, ma sempre più sentenzioso: «Perché non si deve generalizzare, sarebbe pericolosissimo!!...». Quello del «non generalizzare», contrariamente a quanto sarebbe lecito attendersi da tifosi dell'ugualitarismo, rimane però un discorso di pura esteriorità. La morale democratica insegna che non si può generalizzare su zingari, omosessuali, negri ed ebrei, così come su tutte le altre categorie socio-politiche che godono della sua protezione. Su questi soggetti, ogni rilievo è destinato a restare un «pregiudizio». Ma opporsi alla sopraffazione, alla denigrazione, alla criminalizzazione di un popolo, alla «pulizia» etnica o religiosa, alla persecuzione di un'idea o di una minoranza politica, non è nella morale democratica un punto fermo di civiltà valido in ogni caso. Questi saggi principi di tolleranza sono stati tradotti in disposizioni di legge di grande rigore,ma esse operano a senso unico esclusivamente a difesa delle ideologie, delle potenze e dei potentati dominanti, e l'aggressione indiscriminata contro gli avversari resta la regola. Da decenni infatti si «generalizza» con astio implacabile contro tutte le forme di nazionalismo,contro i popoli che rifiutano di sottostare alle parole d'ordine del mondialismo, e contro i nemici di sempre, fascisti in testa. Quanto ai nazional-socialisti, l'odio contro di loro e contro la Germania è un fiume sempre in piena. Così alle pagine 137-139 del suo Essere ebreo,Bompiani 1994, «generalizza» il rabbino Toaff: «Io non posso neanche sorvolare in aereo la Germania. L'ho eliminata; per me non esiste, non voglio avere nessun rapporto con la Germania, neanche con le comunità ebraiche. Io ho anche ritenuto un errore madornale la ricostituzione di comunità ebraiche in. Germania. La Germania dopo quello che ha fatto non deve essere più considerata come un territorio col quale gli ebrei possono avere un contatto... Anche l'Austria. L'Austria forse peggio della Germania... Gli ebrei hanno perdonato? (incalza l'intervistatore) No. Noi non si perdona... No. Non c'è perdono. Per queste cose si deve rendere conto a Dio». È un'offensiva quella demo-antifascista che approfittando del controllo dei media può permettersi di trascurare qualsiasi coerenza. Si è fatto un mito della Resistenza, ma la lotta del popolo palestinese - cui sotto l'occupazione israeliana sono negati sulla propria Terra i diritti più elementari - è presentata come volgare terrorismo. Si teorizza e si esalta il diritto di ribellione contro le dittature, ma si trova giusto che il popolo algerino sia impedito nella scelta delle proprie istituzioni. Il colpo di stato e la sanguinosa dittatura militare posta in essere dai democratici all'indomani di una pesante sconfitta elettorale, sono valutati dal «libero Occidente» con grande comprensione e, anche in questo caso, la risposta popolare è liquidata come terrorismo. Ogni limite sulla questione è stato superato il 19 luglio 1994 dal TG1 delle 20 che è giunto ad attribuire la responsabilità del «terrorismo», non già alla repressione liberticida della volontà popolare, ma al Corano,«colpevole di incitare all'odio contro gli infedeli». Si può essere certi che accuse dello stesso tenore, rivolte contro Israele, e documentate da non equivoci passi della Torah, sarebbero subito penalmente represse in applicazione della legge Mancino. Ma l'opportunismo democratico è di vecchia data. Si condannano le odierne faide razziali nei Balcani, ma non si ebbe esitazione alcuna nell'approvare le stragi perpetrate nell'Est europeo e in Germania dall'invasore slavo, quando, tra il 1945 e il 1947, in attuazione di precisi accordi intercorsi tra i «liberatori» anglo-americani e i loro complici sovietici, milioni di tedeschi furono uccisi o cacciati dai paesi nei quali vivevano. E per l'Istria - in particolare per la zona dell'ex Territorio Libero di Trieste oggetto del Trattato di Osimo del 1975 - nessuno ha mai osato invocare l'applicazione delle disposizioni della Convenzione di Ginevra sui territori occupati, né di quelle del trattato di Helsinki che proibivano di rivedere i confini fissati alla fine del secondo conflitto mondiale. Se poi, con cadenza ossessiva, si coltiva l'indignazione per l'internamento degli ebrei nel Terzo Reich, in base a quale diverso criterio si trova accettabile che, negli stessi anni '40, negli USA venissero imprigionate migliaia di persone - cittadini statunitensi a pieno titolo - unicamente a motivo della loro origine razziale giapponese? Né qualcuno si chiede infine come mai, visto che avevano preso le armi contro il razzismo, gli Stati Uniti contingentassero proprio su base razziale l'immigrazione e inquadrassero i loro soldati di colore tenendoli accuratamente separati da quelli bianchi, li destinassero a compiti particolarmente umilianti e gravosi, e i reparti negri fossero sempre affidati al comando di ufficiali bianchi. Le domande, considerata la collaudata doppiezza della cultura oggi dominante, potrebbero continuare all'infinito. Se la legge Mancino-Modigliani censura qualsiasi comportamento teso ad esaltare la superiorità razziale di chicchessia, perché è allora consentito al rabbino Toaff (conversazione radiofonica del 24 luglio 1993, RAI 1, ore 19,30) disquisire sulla «superiorità etica del popolo ebraico»? E perché nessun garantista si è levato a protestare contro il Congresso Mondiale Ebraico che ha compilato e diffuso liste di proscrizione nelle quali - nazione per nazione, ben 132 voci -sono elencati i presunti nemici del sionismo? Così come tutti - compresi i grandi del giornalismo, vero signor Montanelli? - hanno taciuto a proposito delle pressioni operate in alto loco da esponenti ebraici affinché, unicamente sulla base di questa odiosa schedatura, giornalisti di null'altro colpevoli che di avere espresso il proprio pensiero, venissero inquisiti e sottoposti alle stesse pesanti misure di sicurezza previste per i terroristi (cfr. «l'Uomo libero» n. 37 del luglio '93). Ma dove lo sforzo propagandistico incentrato sull'accusa di pregiudizio appare in tutta la sua sconcia malafede, è sul tema della società multirazziale. Pare impossibile che persone raziocinanti possano testardamente battersi a favore della mescolanza, quando i disastrosi eventi cui puntualmente assistiamo nei paesi dove l'esperimento è già stato tentato, dimostrano che la soluzione non può funzionare. Eppure esistono personaggi che sull'argomento manifestano una vera e propria furia maniacale. Uno di questi è monsignor Di Liegro, della Caritas, il quale, celebrando un matrimonio tra un'italiana e un negro ha testualmente affermato: «E questo un esempio che tutti i buoni cristiani dovrebbero imitare!». Che i vascelli dell'estremismo ecumenico e dell'utopia mondialista siano destinati a infrangersi sugli scogli della realtà, lo provano gli Stati Uniti, il laboratorio nel quale il tentativo di annullare le barriere razziali è in corso da più lungo tempo. Nonostante gli sforzi dei vertici politici e culturali di quel Paese, le varie minoranze rifiutano di fondersi e ciascuna di esse appare anzi decisa a mantenere la propria integrità, la propria lingua e le proprie tradizioni. È una situazione senza via di uscita in quanto è proprio la presenza sullo stesso territorio di etnie diverse - come insegnano i casi jugoslavo, irlandese, libanese, ecc., ecc. - a dare origine a quegli attriti che, con frequenza impressionante, sfociano in guerre civili, devastazioni,saccheggi. Ed è una realtà sulla quale nessun intervento può ottenere risultati. Non vi è infatti alcun tipo di legislazione o di autorità, laica o religiosa, che possa modificare comportamenti inscritti geneticamente in un gruppo. Nessuno può attribuire per legge ad una razza quella posizione, quel rispetto sociale che essa nei secoli non è stata in grado di conquistarsi da sola;nessuna pressione culturale può riuscire ad imporle quei comportamenti che non le sono propri, né sul. piano civile, né su quello privato. La dimensione onirica dell'antirazzismo democratico è suffragata da recentissime statistiche USA che sono una vera doccia fredda sui facili ottimismi dei progressisti. Tra le famiglie nere americane più della metà ha per capo famiglia una donna, e non già perché il marito se ne sia andato: il 55% delle madri di colore non ne ha mai avuto uno. Le nascite da madri «single», tra i neri, hanno una frequenza 10 volte maggiore che nella razza bianca. A 15 anni il 70% delle donne di colore ha già avuto rapporti intimi. Ora è della massima evidenza che il figlio di una madre di 15 anni, con una nonna sui 30 e una bisnonna poco sopra i 40, tutte senza un marito, prive di istruzione e di lavoro, ha un altissimo numero di probabilità di imboccare la strada del crimine e della droga. È un quadro sociologico che spiega abbondantemente l'endemica povertà della popolazione di colore negli Stati Uniti, la sua ghettizzazione, ed anche il dilagare dell'AIDS, una patologia per la quale tra i negri i decessi sono tre volte più alti che tra i bianchi. Disastroso l'impatto dei colorati col mondo dell'istruzione. Molti di loro che pur riescono a conseguire un diploma sanno a stento leggere e scrivere. Ci spiega questa incongruenza Robert Canot (L'estate di Watts, Rizzoli, pag. 34) quando scrive che gli allievi respinti finiscono per essere ugualmente iscritti alla classe superiore. «Se tutti i bocciati fossero costretti a ripetere all'infinito la stessa classe, ben presto le scuole risulterebbero così affollate da far crollare l'intero sistema educativo. Prima o poi, chiunque, ha una ragionevole possibilità di arrivare al diploma sotto la spinta della massa dei nuovi studenti che affrontano i corsi di studio. Che sappia o meno qualcosa non ha importanza.». Ed ecco, dopo il diploma, gli studenti negri approdare all'università, dove sono ammessi grazie al sistema delle «quote» che, a scapito dei candidati delle altre razze, li favorisce considerandoli «specie protetta». A dispetto però della demagogia politica e delle fantasie cinematografiche e televisive, nelle quali medici, ricercatori, avvocati e manager di colore si sprecano, questi studenti semplicemente non riescono a superare gli esami. Al 12% di popolazione negra è riservato negli USA circa il 30% dei posti nelle Università: ebbene, i laureati del gruppo non superano il 2%! Una delle tesi difensive più care alla sinistra - che i pessimi risultati scolastici dei negri siano da imputare a fattori sociali, al grado cioè di ricchezza familiare - è smentita da precise rilevazioni. Gli studenti negri appartenenti a famiglie con reddito annuo tra i 50 e i 60 mila dollari non riescono a tenere negli studi il passo dei colleghi asiatici «poveri», appartenenti a famiglie con reddito tra i 10 e 120 mila dollari annui. E il dato, negativo per i colorati, trova conferma nei test di intelligenza raccolti negli orfanatrofi. Tra gli ospiti delle varie razze,allevati tutti, come è ovvio, in condizioni di assoluta uguaglianza, per i punteggi conseguiti i neri occupano saldamente la coda della classifica. È fuor di dubbio che la realtà etnica sia anche alla base della straordinaria diffusione del crimine negli Stati Uniti. I neri, col loro 12%, fanno registrare il 47% dei reclusi e il 40% dei condannati a morte. Un milione di loro si trova oggi dietro le sbarre o rischia di tornarvi per violazione delle leggi sulla libertà vigilata. Nel District of Columbia (Washington) nel 1992 ben il 42% dei maschi neri tra i 18 e i 35 anni erano in prigione. Tra i reati «preferiti» dai colorati vi sono l'assassinio - 24.000 persone uccise negli USA nel solo 1993 - la violenza carnale (con una frequenza dalle tre alle quattro volte maggiore che tra i bianchi) e lo spaccio di droga. Per quest'ultimo reato, nel 1990, i negri arrestati negli USA furono 349.965, oltre il 40% del totale. Ma sono le rapine la vera «specialità» dei neri: col 63,9% del totale i bianchi sono battuti per 5 a 1. Pur alla luce di questa realtà, si continua ad addebitare a pregiudizio il comportamento della maggioranza bianca che, appena le è possibile, evita di risiedere in quartieri «misti» e rifugge da ogni contatto sociale coi neri (ma non con gli asiatici). Nonostante i dati sulle rapine, ci si meraviglia che i tassisti bianchi rifiutino di far salire sulle loro vetture e trasportare nei «ghetti» i passeggeri di colore. In Italia nessuna seria riflessione si fa strada attorno al drammatico e istruttivo esempio americano, ed è giudicato antidemocratico, e quindi delittuoso, auspicare che la miscela esplosiva esistente nelle megalopoli statunitensi sia tenuta lontana dall'Europa e dal nostro Paese. Viene bollato come insensato, frutto di pregiudizi, dichiarato addirittura penalmente perseguibile, il rappresentare - a chi non riesce ad immaginarseli da solo - i problemi che, nel mondo della sanità, del lavoro e della scuola, dei rapporti sociali e privati, sono fatalmente destinati a sorgere a causa dell'incontrollata immigrazione dal Terzo Mondo. Né vengono degnate di attenzione quelle critiche mosse contro le leggi che consentono in Italia, a nostri connazionali privi di lungimiranza e discernimento, l'adozione ogni anno di migliaia di fanciulli di colore che, sottratti alla loro gente, vengono trasferiti in un Paese nel quale resteranno per sempre - ben che vada - degli emarginati. È un problema questo assai grave: ben 15.000 sono ormai i bambini stranieri che portano cognomi italiani. I «democratici», come dimostra il loro comportamento da dissociati, non sanno quel che fanno, non credono a quel che dicono e, d'altro canto, la loro «Città del sole» risulta essere,alla prova dei fatti, solo un incubo. Gli attacchi sferrati contro i «pregiudizi» si evidenziano a questo punto come del tutto pretestuosi e non possono essere addebitati altro che a un pervicace tentativo di puntellare posizioni ideologiche prive di concretezza e come tali alla lunga perdenti. E tuttavia, al di là dell'inconsistenza dottrinale delle tesi sostenute, nonché del fallimento della «democrazia reale», rimane il fatto che la gestione monopolistica degli strumenti di formazione dell'opinione pubblica ha consentito alla democrazia e al grande capitale di condurre un'efficace battaglia di retroguardia. All'avversario è stata sistematicamente negata la possibilità di replicare, di confutare, di proclamare ad alta voce quelle verità che molti sentono essere vere, ma che il sistema si ostina a definire «pregiudizi». Né col nuovo corso impresso da mani pulite le cose sembrano cambiate. Al «nuovo» sono state aperte le porte a patto che gli interessi strategici ed economici della plutocrazia e dell'America restassero intatti, purché, nel nuovo, i «pregiudizi» continuassero ad essere gli stessi di prima. Per i nemici dell'Europa è questa evidentemente una posizione irrinunciabile. Su questi stessi «pregiudizi» l'Europa aveva razionalmente ed apertamente puntato - tra le due guerre - per il proprio futuro. Diciamo razionalmente in quanto gli Stati totalitari non nascono dall'immaginazione di sognatori, ma dall'esame attento del fallimento del mito democratico. La sconfitta del '45, la «liberazione» del continente per mano democratica (USA) e comunista (URSS), ha tenuto in soggezione militare e culturale i popoli europei arrestandone la marcia per ben 50 anni. Da quando, col crollo del muro, gli equilibri sono mutati a favore dell'Europa, si comincia però ad intuire che il vincitore non aveva dalla sua alcuna superiorità morale, ma unicamente la supremazia degli armamenti e dei mezzi propagandistici. Non gli va di conseguenza riconosciuto oggi alcun diritto di pontificare, di affermare, dandolo per scontato, che le sue scelte fossero migliori di quelle dei popoli invasi. La vittoria militare della democrazia e del comunismo sull'Europa non è stata un giudizio di Dio, una vittoria della Ragione sul Pregiudizio, ma solo una sopraffazione le cui conseguenze possono essere oggi azzerate. Le truppe dell'Armata Rossa si sono ritirate dall'Est e quelle americane, ancora stanziate in Occidente, dovranno presto imitarle. È logico che in questa cornice i giorni debbano essere contati anche per i collaborazionisti. Nel clima di ritrovata sovranità, quelle «quinte colonne» anti-europee insediate al potere dalla spartizione di Yalta e compromesse nell'appoggio ideologico e politico dell'occupante, non hanno più alcuna ragione per attardarsi sulla scena. È giunto per i popoli europei il momento di riappropriarsi dei propri spazi strategici e culturali. Lo scontro, necessario ed inevitabile, avverrà attorno alle tematiche di cui ci siamo occupati. Ancora una volta i «pregiudizi» la faranno da protagonisti. Piero Sella

Fonte: http://www.uomo-libero.com/images/articoli/pdf/194.pdf


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Author(s): Olodogma
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Published: 2013-04-23
First posted on CODOH: June 22, 2017, 5:30 p.m.
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