Gianantonio Valli e l'Einsatzgrup­pe C, Babi Yar, Encyclopaedia Judaica , Elie Wiesel, Gitta Sereny, Albert Hartl, Paul Blobel...

Published: 2013-03-13

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La pubblicazione del testo avviene col consenso dell'Autore, che ringraziamo anche a nome di alcuni lettori che ci hanno "incaricato" di porgere i loro complimenti per il suo lavoro. Olodogma

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Gianantonio Valli

HOLOCAUSTICA RELIGIO

Psicosi ebraica, progetto mondialista

nuova versione, ampliata e reimpostata, di Holocaustica religio - Fondamenti di un paradigma

© 2010 effepi, via Balbi Piovera, 7 - 16149 Genova , novembre 2009

Pagg. 417 → 425

Gianantonio Valli

A parte i geyser di sangue inventati da Elie Wiesel, è anche Gitta Sereny (I), suggestionata da Eichmann (riportato da Cesarani : «C'era una fossa, era già piena, e il sangue sgorgava fuori... come posso dire...? come una fontana») e decisa copiona delle «confes­sio­ni» della «SS di Dio» Kurt Gerstein, ad avallare la favola della «terra tremante» riportando­ci le pennellate di Albert Hartl, ex dirigente «pentito» del RSHA Reichssicherheit­shauptamt "Ufficio Cen­tra­le per la Sicurezza del Reich", presente a Kiev nella «torrida estate» del 1942, a dieci mesi dal «fatto»: «A un certo punto – stava cominciando a far buio – passammo accan­to a un lungo burrone. Notai strani movi­menti della terra. Zolle di terra schizza­va­no in aria come per propulsio­ne inter­na, e c'era del fumo. Era come un vulca­no che ribolliva sommessa­mente: come se ci fosse lava rovente appena sotto ter­ra. [Paul] Blobel [«il più efficiente assassino di ebrei», ex architetto di Düsseldorf «alcolizzato» e «pervertito»] scoppiò a ridere, fece un gesto col brac-cio indicando all'indietro lungo la strada e più avanti, per tutto il burrone – il burrone di Babi Yar – e disse: "Qui riposano i miei trentamila ebrei"». Singolarmente, sempre trentamila erano stati gli ebrei assassinati, sempre in due giorni, a Dneprope­trovsk dall'SS-Gruppenführer Friedrich Je­ckeln e dai «suoi esperti macellai» del Kommando 5 della Einsatzgruppe C. Secondo la vulgata, entrati i tedeschi a Kiev il 19 settembre 1941 dopo aspri combattimenti (la città, incendiata in gran parte e minata con bombe a radio­deto­nazione dai sovietici, è luogo di battaglia antipartigia­na per altre due settimane), il primo «massa­cro» di ebrei a Babi Yar si apre la vigilia dello Yom Kippur con mitra­gliatrici, fucilazio­ni e pistolettate (ma anche, attesta Sergej Ivanovic Lutzenko, guar­diano del cimitero di Lukyanovka, scagliando i bambini vivi dentro le gole, e quindi risparmian­do pallottole; modalità confermate dall'«unica soprav­vis­suta» del massacro, Dina Mirono­vna Pronicheva, nel processo aper­tosi a Darm­stadt il 2 ot-tobre 1967), da 150 uomini del Sonder­kom­man­do 4a della Einsatzgrup­pe C, «supported by Ukrai­nian militia men, aiutati da miliziani ucraini» (così la Encyclopaedia Judaica), il 29 e 30 settem­bre. E precisamente, sottolinea Jonathan Schen­ker, in 36 ore: «il più grande stermi­nio compiuto in una sola gior­na­ta. È stato tutto terribil­mente veloce, i tedeschi non hanno dato tregua», dirà l'oloesper­to israeliano Yitzhak Arad (un giorno e mezzo in cui, nota Herbert Tie­de­mann in Dissec­ting the Holo­caust e conferma Karl-Heinz Schmick, piovve inin­terrot­ta­mente e persino nevicò, rendendo pressoché impratica­bi­li le strade!). Al­tre «stragi» seguono nei 778 giorni «of Nazi rule in Kiev». Fam­oso per essere stato messo in versi nel 1961 dall'ucraino Evgenij Evtushen­ko ispirato dal superame­ricano Joseph Schec­htman (poesia musicata da Sho­sta­kovic con la Tre­di­cesima Sinfo­nia... ma il primo poema babiyari­co l'aveva compo­sto l'«ucraino» Savva Golova­niv­skij, nel 1949 accusato dalla Literaturnaja Gazeta di «avere dif­fama­to la nazione sovietica» avendo descritto la passivi­tà della popolazione davan­ti allo «sterminio» degli ebrei), il «massa­cro», fictionizza­to nel 1947 da Ilja Eren­burg in Burya, vede gli olostermi­nati sep­pel­liti in una gola nei pressi di Kiev dopo essere stati denudati onde recupe­rarne il vestiario (oltre cento ca­mion). In decrescendo, ecco le cifre da diciassette fonti: - Vitaly Kortych, edi­to­re della rivista sovietica Ogo­nyok, nel­l'aprile 1990 dà un totale di 300.000 mas­sacra­ti; - gli ebrei Vladi­mir Posner ed H. Keyssar, nel 1990, si ac­conten­tano di 200.000 (Remem­be­ring War - A US-Soviet Dialo­gue, Ox­ford UP, New York); - nel­l'ot­tobre 1991, in una commemorazione a Babi Yar, si parla di 150.000; - il 4 di­cembre 1943 il New York Times riporta che i massacrati sono «più di 100.000», - dato ripreso dal­l'Encyclo­pe­dia ­Bri­tannica, - dal­la Judaica e dal­l'Encyclope­dia of the Holocaust, - nonché inscritta in bronzo in russo, ucraino ed ebraico sul memoriale: «Qui gli occupanti fascisti tedeschi fucilarono oltre 100.000 abitanti di Kiev e prigionieri tra il 1941 e il 1943»; - il 29 novembre 1943 una Commis­sione­ So­vie­tica d'Inchie­sta abbassa i morti a 80.000; - nel 1959 l'Enciclo­pedia Sovietica dell'U­craina e il - 14 feb­braio 1968 il New York Ti­mes ci ricordano che sono 70.000; e - 70.000, nel solo giorno 29 settembre 1941, sono i massacrati per Fausto Coen e Luciano Tas; - «fino a 70.000» li nu­mera nel 1972 (3a edizio­ne) la Grande Enci­clo­pe­dia Sovie­ti­ca, che nel 1952 (2a e­dizione) aveva però ignorato la voce «Babi Yar»; - nel 1942 l'america­no Coun­cil on Soviet Re­lations pubblica il rapporto The Molo­tov Paper on Nazi Atro­ci­ties con la cifra di 52.000 (che troviamo il 16 no­vem­bre 1941 nel Daily Bulletin of the Jewish Tele­graphic Agency), - salita a 60.000 tondi in George Creel nel 1944; - di 50.000 parla il 5 settembre 1991 il Washington Times; - nel novembre 1941 al­cu­ni parti­gia­ni polacchi di Leo­poli rife­ri­scono l'assassinio presso Kiev di 38.000 ebrei ad opera di «tede­schi e ucrai­ni»; - più scrupoloso è il rieducato Grosses Lexikon des Dritten Reichs che, «according to an of­fi­cial German re­port», riporta solo i 33.371 mitragliati del 29-30 settem­bre 1941 (del suo, Wiesel ne aggiunge qualche altra decina di migliaia: «... eppu­re a Babi Yar in dieci giorni sono stati sterminati 60.000 forse 80.000 ebrei, tra Rosh ha-Shanah e Kippur»); - per il Grand Diction­naire Encyclopé­dique La­rous­se del 1982 le vittime crollano a 10.000; - l'Encyclo­pedia of Ukraine edi­ta a Toronto nel 1988 dà infine un «misero» totale di 3000 uccisi. Dato che i «massacra­ti» sono stati interrati nella gola facen­do­ne saltare i cigli affinché «la massa di terra seppellisse i cada­ve­ri, eliminando in tal modo le tracce dell'accadu­to» (a causa, verosi­mil­mente, dei processi putre­fattivi la terra, riferisce in tutta serietà Wiesel in Parole d'étranger, avrebbe tremato per mesi con geyser di sangue alzantisi dal terreno!), per­ché non dissot­terrarne i corpi – taluni potreb­be pensa­re – e mettere fine all'impu­denza «neonazista», alle squallide tesi degli olodubitan­ti? Ebbene, ciò non è possibile. Il Kölner Stadt Anzeiger di Colonia ce ne chiarisce il motivo il 7 ot­to­bre 1991. Riportando un comu­ni­cato della A­btei­lung Presse­do­ku­men­ta­tion, «Sezione Documen­ta­zione per la Stam­pa» del Bun­des­tag, il quotidiano scri­ve che «nel 1943 internati ebrei furono costretti a dissep­pellire i corpi [fino a 300.000! ricordiamo che per esumare le 4800 reali e con­cre­te salme di Katyn i tede­schi im­piega­rono dal 29 marzo al 3 giugno, due mesi e mez­zo]; questi fu­rono ­cre­ma­ti in forni, le ossa triturate [zer­ma­hlen]. Dopo la ritirata dei tedeschi nulla doveva ricor­da­re l'assassinio di mas­sa ivi com­piu­to». Più colorita è una seconda versione. Secondo la testi­mo­nianza di un capitano ebreo dell'Armata Rossa, rilascia­ta il 10 febbraio 1944 all'Eyni­keyt (Unità), il giornale del Comitato E­braico An­tifascista di Mosca, «i tedeschi portarono in catene 300 pri­gionieri sovie­ti­ci a Babi Yar nel maggio 1943. Questi pri­gio­nie­ri furono obbligati a costruire enormi forni nella terra [huge ovens in the earth] e in ogni forno furono cremati circa 4000 corpi. Circa 100.000 c­orpi furono così cre­mati e poi i prigionieri che ave­va­no eseguito la crema­zione furono essi stessi cremati. Diciotto dei prigionieri so­pravvissero all'azione». Leggermente più detta­glia­ta che non la Judaica è l'Encyclopedia of the Ho­lo­caust, la più recente e, presumiamo, autorevole fonte «documen­taria». Per essa il curato­re Israel Gutman, nato a Varsavia nel 1923, ex «insorgen­te» del ghetto, olomiracolato da Majdanek, Auschwitz, Mauthausen e Gunskir­chen e, giura Arno Lusti­ger, «Nestore della storiografia della Shoah e della Resistenza», non solo ha scritto una sessantina di voci, ma ha mobi­li­tato 140 «eminenti esperti colle­ghi da ogni parte del mondo». Innanzi tutto ci viene detto che, vergognoso forse dell'ac­caduto e per cancella­re ogni prova, lo Standarten­führer Paul Blobel, già capo del "Son­derkom­mando 4a" e ora del "Son­derkom­mando 1005" (denomina­zioni inven­tate di sana pianta, date al mondo dal giudice so­vietico Smirnov a Norimberga il 19 febbraio 1946), torna a Kiev nel lu­glio 1943 e sele­zio­na dal cam­po di Syretsk 327 prigio­nieri, dei quali 100 ebrei (verosimilmente a corto di informa­zioni serie, invece di 327 Creel ne asserisce in tutto 100). Allog­giati in un rifugio ricavato in una parete della gola e protet­to da una «porta di ferro» e da «una guardia con una mitraglia­tri­ce», i 327, incatenati i piedi («they had chains bolted to their legs»), esumano e cremano i 100.000 cadaveri. Stavol­ta non più nelle enormi fosse della Judai­ca (secondo la quale, evidente­mente, le leggi di natura sono state abo­li­te dal 1942 al 1944), ma su pire di ceppi imbevuti di benzina («doused in gasoline») posti su una base di traversi­ne. Le ossa che non si riesce ad incenerire («that did not respond to incine­ra­tion») vengono fran­tu­ma­te usando le lapidi del vicino cimitero ebraico: «for which pur­po­se the Nazis brought in tombstones from the Je­wish ce­me­tery». Per inciso, anche ad Ausch­witz i tedeschi impongono un tale minuzioso lavo­ro: le «ceneri delle fosse» e i residui non combusti di «ossa» vengono trasportati «ad una spiana­ta di cemento dietro al crematorio, dove le ossa dovevano essere sminuzza­te dai prigionieri con degli attrezzi simili a quelli usati per battere i sampietri­ni»... così il «teste» Sonder­kommando Shlomo Venezia, che nel 1995 riferi­sce la «spianata» nei pressi del crematorio III, mentre il non meno autorevo­le Sonder­kom­mando Filip Müller aveva attestato, sedici anni prima, che l'u­ni­ca «spia­nata» esistente era «nel cortile interno del crematorio V». Quanto a Belzec, impagabile è il marchingegno attestato da Roberto Sforni: «Quan­do tutti i corpi erano stati rimossi da una fossa, un altro gruppo setacciava il terreno, per estrarre tutti i residui, come ossa e ciocche di capelli, gettandoli tra le fiamme. Dal campo di Janowska fu fatto arrivare uno strumento in grado di tritu­ra­re le ossa uma­ne con una persona già esper­ta del suo funzionamento, un Ebreo unghe­re­se di nome Szpilke. Que­sta macchina, alimentata da un motore die­sel, posiziona­ta a pochi metri dalla "Stiftung Hackenholt", aveva l'aspetto di un enorme frulla­to­re in cemento con una sfera che conteneva due bocce di metallo. Quando la sfera veni­va fatta girare ad alta velocità, le due bocce andavano a colpire le ossa contenute nella sfera, polveriz­zan­dole. Alla base del macchinario vi era un setaccio che agiva da filtro, trattenen­do i pezzi di ossa che non erano stati distrutti e vomitando invece le polveri fini». Sempre su Babi Yar, più dettagliato – e quindi, suggerisce implicitamente Erhard Roy Wiehn, af­fidabile – è l'olo­scampato Jakov Kaper: «Una squadra spe­ciale smi­nuz­zava queste ossa con parti­co­lari maz­zuoli di legno [mit speziellen Holz­stößeln]. C'era poi una rete, una specie di crivello, dove le ossa sminuzzate venivano setacciate. I pezzi più grossi venivano frantumati più volte [wieder­holt zerstoßen] ed ancora setacciati, la cenere veniva mischiata con sabbia, messa in carriole e dispersa sulla strada [...] La squadra di cremazione era composta da un 330 uomi­ni. Tre volte al giorno ci ispezionavano le ca­tene e giuravano spirito­sa­mente che anche in cielo una squadra aveva tante "figure" come la nostra. Ce lo diceva­no e ridevano. Non ci conside­ra­vano più uomi­ni, ma "figure", giocat­toli [...] Penso che non ci sia e non ci possa essere un lavoro più orrendo di questo schifo, la cremazione dei cadaveri a Babi Yar». Il cimitero serve anche, secondo Creel, a fornire le grate, costruite con la recin­zio­ne, per i «quattro crematori» «alti come una casa di due piani [...] I corpi venivano posti su grate di ferro, uno strato alternato a uno di legname imbevuto di kerosene. Ognuno conte­neva quasi 4000 cadaveri [...] Durante l'operazione, spesso ufficiali delle SS arrivavano su camion con prigionieri che erano stati asfissiati. Essi portavano anche taluni prigio­nie­ri svenuti, ma vivi, e anch'essi venivano get­tati sui roghi». Dopo avere obbligato i detenuti a frantuma­re le ossa schiacciando­le tra le lapidi, i «nazi», recuperatori di aurei denti dagli ologas­sati, compiono ciò che i loro meno avidi colleghi due anni prima han­no trascu­rato: come per i lituani di Masha Greenbaum, ven­gono se­tac­ciate le ceneri per recupe­ra­re i possi­bili («they might have contai­ned») oggetti d'oro e d'argen­to. Pensa forse il lettore che queste minuziose operazio­ni, delle quali nessuna traccia è rimasta («no trace was left of the mass graves») abbiano necessitato di diversi mesi, o magari di anni? Nos­signore. Pun­tua­le, l'EH: «Cremation of the corpses began on Au­gust 18 and went on for six weeks, en­ding on Septem­ber 19, 1943» (la località sareb­be stata occupata dai sovietici il 6 novem­bre). Oltre ai festeggia­menti per l'impre­sa e a mo' degli antichi egizi, lo stesso 19 settem­bre, a grazie di tanta solerzia, vede l'esecu­zione e la cremazio­ne dei 327, tranne quindici cui, come accadde per i mashagre­enbau­miani, «le tene­bre e la nebbia han­no permesso la fuga poco dopo la mezzanotte [shortly after mid­night]». In conclu­sio­ne, i 100.000 cadaveri (cifra accetta­ta dall'«italico» Gad Lerner, che pennella, invidioso del Wiesel dei geyser di sangue: «Di notte la terra si muoveva come viva, tanti erano i corpi che si agitavano ancora sepolti tra i cada­veri dei loro cari. Alla fine i morti si conteranno in più di centomila, e negli anni Cinquanta si rende­ran­no necessari degli inter­venti [!] perché la terra troppo grassa [!] non era in grado di assor­bi­re la pioggia che allagava i dintorni») – e i milioni di pallottole usate – svaniscono in 31 giorni, a una media di 3200 pro die (un pro­gres­so: per Sybille Steinbacher, per eliminare i 100.000 cadaveri prodotti dai «Bunker 1 e 2» di Birke­nau, Blobel aveva impiegato tre mesi!). E non in forni ad alta tem­pe­ratu­ra, ma all'aria aperta, in tutta tranquillità. E a prescindere dal maltempo, dalla pioggia e dal fango. E trasportando per ferrovia e su strada e incenerendo almeno dieci­mila tonnel­la­te di legno ben secco (al­meno un quintale per cadavere, se posto su pira!), posate anche sul­le cancellate divelte del cimitero a fini di aerazione (!). Diecimila tonnel­la­te, una catasta alta un metro, larga un metro e lunga trenta chilometri (e catasta ta­gliata da chi? e dove?). E mandando in fumo, impla­ca­bili, migliaia di etto­litri di vitale benzi­na. E il tutto poco dopo la gigantesca battaglia di Kursk, mentre l'Armata Rossa, bava alla bocca, incalza i «cri­minali hi­tleria­ni» e osserva, serafica quando non ammirata, tanta impresa da poche decine di chilometri. Nel Lexikon des Judentums, edito a New York da John Oppen­hei­mer, si leg­ge che nel 1936 vivono a Kiev 140.000 ebrei (il 27% della popolazio­ne cittadina). La Judaica dà al 1923: 128.000 ebrei (32%), al 1926: 140.256 (27%), al 1939: 175.000 (20%). L'EH dà 160.000 ebrei al 1941. Negli scorsi decenni, ma soprat­tutto a partire dal 1985 con la pere­strojka, decine di migliaia di membri della comunità ebraica di Kiev (quella «pres­so­ché completa­mente an­nien­tata a Babi Yar e in altri massacri nei due anni di occupazione tedesca», come recitano i libri scolastici della Terra Rieduca­ta) emigrano in Israele, negli USA o in Terra Rie­du­cata (nei soli ultimi mesi del 1991 ben diecimila ri­chiedono un visto al consola­to tedesco di Kiev). Ebbene, il 6 ottobre 1991 l'Agence France Presse comuni­ca che la popolazio­ne e­braica di Kiev ammonta a 120.000 individui. In paral­lelo la Judaica indica che nei quindici anni seguenti il conflitto ammontava a 200.000 indivi­dui. I quali, secon­do il censimento sovie­ti­co, nel 1959 sono 154.000. Ora, che la comu­ni­tà ebrai­ca di Kiev sia stata rimpol­pata dopo la guerra con ebrei di altre regioni è credibile ed ovvio. Consi­de­rata però la questione in tut­te le sfaccetta­ture ed avendo pre­sen­ti i rilievi che gli studiosi re­vi­sio­nisti hanno portato per de­mo­lire l'Immagi­nario (ne bastino, per Babi Yar, anche i soli aerofoto­grammi in Ball), la­scia­mo al let­to­re le con­clu­sio­ni. In ogni caso, il Sistema vieta il pensiero non solo sulle più generali oloconclu­sio­ni eretiche, ma anche su singoli oloaspetti, quale appunto Babi Yar: nella primavera 1999 Hans-Eberhard Hefendehl, diretto­re di un perio­di­co non-confor­me, per avere du­bitato della versione canoni­ca viene danna­to dalla pretura di Coburgo a sei mesi di carcere condi­zio­nali più un'am­menda di 2000 marchi (l'ac­cusa aveva richiesto otto mesi senza condizionale), mentre il coimputato Paul J. Muenzer si accon­tenta di 2000 marchi d'ammen­da (nessun dibattito è stato, ov­viamente, tenuto né ammesso sulla giu­stezza o meno delle loro tesi). Cosa, d'altronde, pretendere dal GROD, se anche la presi­dentessa bundesta­ghiana Rita Süß­muth, il 5 ottobre 1991 nel cin­quan­tenario del «massa­cro», ne aveva gettato l'eterna «colpa» sull'in­tero popolo tede­sco?: «Babi Jar ist eine Stätte schrecklicher Erinne­rung, ein Ort des Gra­uens und, für uns Deutsche, der Scham und nicht tilgbarer Schuld, Babi Yar è un luogo di tre­mendi ri­cordi, un luogo di orrore e, per noi tedeschi, di vergogna e colpa incancel­labile». Disinvol­to, chiude Peter Novick: «Dopo il ritorno dei sovietici a Babi Yar, il cor­ri­spon­dente del New York Times al seguito dell'Armata Rossa sottoli­neò che mentre i funzionari sovie­tici sostenevano che decine di migliaia di ebrei erano stati uccisi a Babi Yar, "nessun testimone delle esecuzioni ha parlato coi giornalisti"; "è impossibi­le per questo giornalista giudicare della verità o della falsità della storia racconta­taci"; "nei burroni ci sono poche tracce per confermare o confutare la storia"». Troppo ghiotta per essere ignorata, riportiamo poi la poetica testimonianza, offerta in tutta serietà ai minus habentes da Antonella Salomoni, concernente il fantamassacro di Berdichev il 15 settembre 1941: «Un intero giorno di sangue. Le fosse ne erano stracolme, giacché il terre-no argilloso non riusciva ad assorbirlo. Il sangue debordava formando grandi pozze, scorreva a fiotti e colava nei profondi avvallamenti del terreno. I feriti che cadevano nelle fosse non morivano a causa dei proiettili, ma soffocati, annegati nel sangue. Gli stivali dei boia erano fradici di sangue, e per raggiungere la loro tomba le vittime cammina­vano in un lago di sangue [...] Per coprire i corpi fu necessario ammassare montagne di terra, e la terra si muoveva, quasi respirasse in preda a convulsioni. Di notte, molti di coloro che erano ancora vivi riuscirono a trascinarsi fuori da quei cumuli. L'aria fresca era penetrata nella terra smossa e aveva restituito forze e coscienza a quanti, tra coloro che giacevano in cima ai mucchi delle vittime, si trovavano ancora in vita, feriti e/o svenuti. Costoro, strisciando, cercarono istintivamente di allontanarsi il più possibile dalle fosse. La maggior parte morì sfinita o dissanguata lì sul terreno, a poche decine di passi dal luogo dell'esecuzione». Semichiudiamo con l'altrettanto suggestivo Anthony Read: «In alcuni [campi e luoghi di olosterminio] i corpi in decomposi­zione si erano gonfiati e avevano premuto contro la coper-tura delle fosse in cui erano sepolti, aprendole a forza ed emergendo dal terreno come zombi accusatori. Ossessionato dalla neces­si­tà di segretezza, Himmler diede disposizione di riesumare i cadaveri dalle fosse comuni e bruciarli su grandi pire, macinando le ossa rimaste fino a ridurle in polvere, in modo che non vi fosse alcuna possibilità di contarli. Le ceneri e la polvere così ricavati furono vendute come fertilizzante agricolo». Ancora più zombesco è il cinquantenne prete cattolico Patrick Desbois, già rettore del seminario del Prado a Lione, presidente dell'associazione Yahad-In unum ("l'uno e l'altro insieme"), «creata nel 2004 da eminenti personalità del mondo cattolico ed ebraico», ultimo rinverditore dell'olonovella per quanto (o magari in quanto) direttore dell'«Ufficio nazionale dei vescovi di Francia per le relazioni con l'ebraismo» e «consigliere del Vaticano per la religione ebraica». Dopo escursioni in Ucraina durate due anni alla ricerca di prove, restato senza alcunché degno di tal nome il Nostro accatasta raccontini horror in linea con la più stupida vulgata: «Come convincersi del fatto, su cui i testimoni concordano, che le fosse [comuni contenenti decine o centinaia o migliaia di cadaveri di ebrei mitragliati] hanno continuato a "respirare" per tre giorni? Questi contadini ne parlavano come di qualcosa di vivo. Che senso dare a queste parole? Inizialmente, pensavo alla putrefazione dei corpi. Poi, un giorno, in un altro villaggio, qualcuno – un bambino, all'epoca, precettato [dai tedeschi] per riempire una fossa – ci aveva raccontato che era stato afferrato da una mano che affiorava dalla terra. In quel momento, ho compreso quello che tutti i testimoni, che ci avevano raccontato di fosse che si muovevano accompagnando le loro parole con un'ondulazione delle mani, volevano dirci che in effetti ci vogliono tre giorni perché una fossa "muoia" con tutti quelli che sono stati sepolti ancora vivi! Da allora, riesco ad ascoltare frasi come queste: "La fossa ha impiegato tre giorni a morire... il pozzo si è lamentato per tre giorni". Quanti devono essere finiti nelle fosse feriti leggermente o addirittura gettati vivi! Quelli che non cascavano subito venivano spinti e morivano soffocati sotto due o tre metri di terra spalata sulle loro teste». O l'olonovella dei denti, strappati – l'olovulgata s'innalza sublime! – dalle bocche non più dei morti ma dei vivi... e senza anestetico!: «Di recente, sono venuto a conoscenza del fatto che si passava tra gli ebrei con dei sacchetti e delle pinze per strappare loro i denti d'oro. Una donna di novantun anni, Anna Chuprina, nel mezzo di una testimonianza molto lunga, stesa sul suo letto, si era messa a piangere rievocando la morte dei bambini ebrei [...] Davanti alla sua finestra avevano ammazzato più di 8000 persone [ci si immagini lo spazio occupato da una mezza divisione ammazzati davanti ad una finestra... cadaveri poi per nulla trovati, né da chicchessia né da Desbois... ovviamente perché riesumati e svaniti nel nulla ad opera di quei diabolici delle Einsatzgruppen!]. Un giorno, uno dei suoi figli, adolescente, era rientrato a casa con la schiena insanguinata. I tedeschi l'avevano picchiato. "Volevano farmi strappare i denti, ma mi sono rifiutato e loro mi hanno picchiato"». Similmente «una certa Petrivna», le cui parole «escono di bocca con un sussurro» mentre «le mani sbattono l'una contro l'altra»: «"Sapete, non è facile camminare sui corpi" dice alludendo alla cedevolezza di quello che era divenuto il fondo della fossa [...] Con calma, le chiedo se avesse dovuto camminare sui corpi. Mi risponde: "Sì, per pigiarli", mimando con le braccia. Ho capito. "E ha dovuto farlo la sera, al termine delle fucilazioni" aggiungo, "oppure di volta in volta?" Accorgendosi che ho compreso, la donna riprende a raccontare: "Di volta in volta. Eravamo trenta giovani ucraine, con i piedi nudi dovevamo pigiare i corpi degli ebrei e spalarci sopra uno strato di terra, così gli altri ebrei si potevano stendere". "A piedi nudi?" "Sapete, eravamo molto poveri, non avevamo scarpe. I tedeschi mi avevano vista la mattina nei campi. Sorvegliavo una mucca. Mi hanno detto di andare da mia madre, di prendere un badile e di tornare. Quando sono arrivata a casa, mia madre mi ha detto di obbedire, se no mi avrebbero ammazzata. Anche le altre ragazze che sono state prese sorvegliavano le mucche. Eravamo tutte povere". Mai avrei potuto immaginare [commenta il buon Padre] che i tedeschi avessero utilizzato delle ragazze ucraine per pigiare i corpi degli ebrei con i piedi, come si fa con i grappoli del Beaujolais nei giorni della vendemmia [...] Le chiedo se loro venivano fatte uscire dalla fossa tra una fucilazione e l'altra. "Sì" mi risponde, "il comandante tedesco dava un ordine per scendere nella fossa e uno per uscire [...] Molti ebrei erano solo feriti... era dura camminarci sopra"» (l'ideatore del sistema degli accatastamenti, noto come Sardinenpackung, sussurra in nota il traduttore del libello, era stato l'alto ufficiale SS Friedrich Jeckeln). Olomito di rinomanza pari almeno a quello dell'olosa­po­ne, più diffuso degli oloparalu­mi e decisamente più degli olospazzolini, gli olodenti hanno una venerabile storia. Se, strappati ai cadaveri, in Schindler's List vengono gettati sul tavolo da una lattina a mo' di dadi, anche l'ispiratore di Spielberg, Keneally, mica ci va leg­giero: «C'e­rano grandi quan­tità di anelli da bam­bi­ni [!?] e bisognava mantene­re un freddo controllo delle proprie emozioni sapen­do la loro pro­ve­nienza. Solo una volta i gioiellieri vacil­la­rono: quando gli uomini delle SS aprirono una valigia da cui roto­la­rono dei denti d'oro ancora mac­chia­ti di sangue. In un muc­chio ai piedi di Wul­kan erano rappresen­tate le bocche di un miglia­io di morti, ciascu­na delle quali gli gridava di alzarsi in piedi e proclama­re l'infame provenienza di tutti quei prezio­si». Altrettanto imaginifici sullo Zahngold erano stati Jean Pélissier («Una delle prime preoccupa­zio­ni [delle SS] era di controllare la dentatura dei nuovi arriva­ti, a cagione dei denti d'oro che apprezzavano molto [...] A torso nudo, quattro SS allinea­va­no i cadaveri, le teste girate tutte da una parte. Uno delle SS, munito di una lunga pinza, recuperava i denti d'oro»), Otto Friedrich («Otto prigionie­ri che erano stati dentisti [...] spalan­cavano la bocca di ogni cadavere ed estraevano tutti i denti e i ponti d'oro che trovavano; questi veni­vano gettati in un secchio contenente un acido che elimina­va eventuali residui di car­ne e di osso [...] con questa operazione si ricavava­no da nove a dieci chilo­grammi d'oro al giorno»), Szymon Wizen­thal («C'era ad Auschwitz una sorvegliante, una simpatica, semplice ragazza della Selva Nera, che così parafrasava la sua attività: "Lo devo fare ancora per sei mesi. Poi potremo costruirci la nostra casetta". Ogni mese mandava a casa alla sua famiglia alcuni grani d'oro che si ricavavano dai denti degli ebrei assassinati»; con Alan Levy, ritrucida: «[Il quattordicenne ebreo ex orafo Stanislaw] Szmajzner fonde­va l'oro, da otturazioni spesso lorde di sangue e con pezzi di denti e gengiva ancora attaccati, e produceva anelli, gioielli e monogrammi per le SS e i loro familiari»... sottraendolo quindi alle Finanze del Reich), nonché, decisamente più truculento, tal rabbino Warsciawsky che, stando a Roger Peyre­fitte, relaziona sulla reazione di un «ragazzo di quindici anni che era ritornato nella nostra baracca e stava vicino a me e bestemmia­va tutte le volte che mi sentiva recita­re le preghie­re»: «Rimpro­verai con dolcezza il ragazzo di rinnegare quello che gli avevano inse­gna­to. Mi rispose sghignazzando: "Mi hanno fatto strappare i denti d'oro dei cada­veri. Un bel lavoro, no? Sono riuscito a racimolare per loro più di cento chili d'oro. Dovevo fracassare le mascelle con una zappa e un giorno, pri­ma che me ne ren­dessi conto, fracassai quella di mio padre che era mor­to in un'altra baracca. Rimasi completamen­te inebetito con la zappa in mano. Poi, pazzo di rabbia, mi misi a colpire quella testa finché fu ridotta a una poltiglia informe, maledicendo quell'uo­mo che mi aveva fatto nascere in que­sto orribile mondo. Poi sono svenuto: hanno avuto pietà di me e mi han­no esentato dal lavoro. E voi credete che possa ancora crede­re in Dio?"». A far conto, quindi, ogni ex pos­sidente di denti, compresi due milioni di bimbi più o meno edentuli, e i ricchi come i più poveri, avrebbe dovuto avere in bocca un discreto carico d'oro a maggior gloria del Reich. L'unica cosa certa è che l'11 maggio 1998 l'agenzia Reuters annun­cia che il «ricer­catore tedesco indipendente» Hersch Fischler ha avanzato l'i­po­tesi che 600 kg di aurei lingotti tuttora in carico alla Deutsche Bank «proven­gono pro­babil­mente dal­l'o­ro fuso ricavato dalle otturazioni dentali di vittime dell'O­lo­cau­sto» (così eventi n.16/1998). Fantasiosi anche i franchisti nella guerra civile spagnola: «I legionari [...] si limita­va­no a esaminare le bocche dei morti e a estrarne, dopo qualche colpo con il calcio dei fucili, le capsule d'oro dei denti» (Arthur Beevor). Ben documenta­ta invece è l'aspor­ta­zione dei denti d'oro ai cadaveri degli assassinati dalla CEKA ed il loro riutilizzo, come fa Mikhail Frinovskij, il vice di Niko­laj Ezov, che coi denti di un «giustiziato» si rifà la dentiera (Donald Rayfeld). Becero invece, trattando di Katyn e dintorni, Victor Za­slavsky (IV): «Mentre le SS naziste avevano come regola di rimuovere ogni pezzo d'oro dai corpi delle loro vittime, le truppe speciali del NKVD non avevano simile direttiva». Il giovane storico universitario Alessandro Barbe­ro, peraltro suscettibile sterminazionista, cita infine una testimonianza sugli antichi «specialisti dentari» del dopo-Waterloo: «Alcuni ebrei russi partecipa­vano alla spoliazione dei morti strappandogli i denti d'oro, un'ope­razione che compivano con la più brutale indifferenza. Le mar­tel­late di questi sciagurati mi risuonavano orrendamente nelle orecchie, mescolate alle pistolettate dei belgi che stavano uccidendo i cavalli feriti». Chiudiamo però con una carrellata di perle desboisiane. Ivan Lichnitski di Novozlatopil: «Ogni mattina uscivano nudi per essere fucilati in tre grandi fosse. Alcuni contadini erano stati precettati per percuotere delle pentole in maniera da coprire il rumore dell'esecuzione». Edeme Smailovytch di Simferopol: «Agli ebrei, prima [e dai!] dell'esecuzione, venivano strappati i denti d'oro. Li prendeva in consegna un ufficiale». Nina Lisitsina di Bielogorsk: «Stava sul bordo della fossa quando una donna, al suo fianco, è caduta dentro trascinandola con sé. I tedeschi l'hanno creduta morta. Durante la notte, è uscita dalla fossa aggrappandosi alle radici. Aveva cinque anni». Anna Pavlivna Senikova di Romanivka: «Sua zia era stata precettata per cucinare. I tedeschi volevano banchettare durante l'esecuzione. Si alzavano dalla tavola due per volta, per andare a sparare». Jaroslav Galane di Borové: «Mentre le fosse venivano scavate, i tedeschi si erano procurati un grammofono per ascoltare della musica. Uno di loro suonava l'armonica. Durante la fucilazione, succhiavano delle caramelle alla menta». Conclusivo, da wpop12.libero.it/cgi-bin/webmail.cgi, l'articolo «L'opinione di Friedrich Paul Berg su Desbois»: «Ho il libro The Holocaust by Bullets [L'Olocausto mediante pallottole] di padre Patrick Desbois. È sbalorditivo per la sua totale mancanza di qualsiasi prova forense sul fatto che anche una sola persona sia stata uccisa dai nazisti [nel corso delle rappresaglie antipartigiane sul fronte dell'Est]. Nemmeno il più piccolo frammento di osso è stato trovato in una qualunque delle presunte fosse comuni. La "prova" che viene presentata in tre delle sedici pagine di foto a colori consiste in nulla più che bossoli di pallottole consumate, presumibilmente tedesche, trovati vicino a qualcuna delle presunte fosse comuni – ma non è stato trovato nemmeno il più piccolo osso o brandello dei vestiti di una vittima, o di chiunque altro. Nelle sedici pagine di foto a colori, a parte i bossoli delle pallottole, tutto quello che si può vedere sono tetri scenari di fattorie russe in rovina e cosiddetti "testimoni oculari" che appaiono come i più patetici "scemi del villaggio" che si possano trovare. Il libro non è semplicemente l'opera di un solitario mitomane in abiti talari, ma è il prodotto di una importante collaborazione con lo Yad Vashem e l'USHMM [United States Holocaust Memorial Museum]. Il libro è anche un National Jewish Book Award Winner [vincitore del premio nazionale del libro ebraico]. Sul retro della copertina, Deborah Lipstadt ci dice che "il suo [di padre Desbois] contributo alla storia e alla memoria umana, per come è stato registrato in questo importante libro, è incommensurabile". Il libro è stato anche "pubblicato con il sostegno del-l'USHMM". Bene, il libro smantella tutto quello che ci è stato detto sulle Einsatzgruppen. Questo è il suo contributo alla storiografia, ed è davvero un grande contributo. Dove Desbois si aspettava di trovare prove forensi sostanziali, non ha trovato assolutamente nulla se non semplice spazzatura. Per nascondere il suo fallimento, Desbois fa ricorso alla vecchia storia che i nazisti riesumarono tutti i corpi molto tempo dopo che le vittime erano state fucilate, e che li bruciarono all'aperto, da qualche parte. Bene, vi sarebbero dovute essere ancora grandi quantità di frammenti di ossa, se questo è il modo in cui andarono le cose. Uno deve leggere il libro da sé, per capire che la mistificazione è davvero putrida per quanto è grossolana. È anche un'ulteriore ragione per chiedere che i "revisionisti" che ancora credono alla insensatezza dell'"Olocausto mediante pallottole", Mark Weber e David Irving in modo particolare, presentino qualche prova seria o la smettano con la loro vigliaccheria. Il cosiddetto Olocausto è davvero una sporca mistificazione. Non ci fu nessun programma di sterminio, né mediante gas né mediante pallottole. Desbois, senza capirlo, ci fornisce la più grande prova indiretta che si possa immaginare». Ma le fosse, per Dio!, ma le fosse! ne sono state «identificate» almeno cinquecento... che vengano scavate e periziate! e i «negazionisti» inchiodati, per sempre, all'infamia delle loro tesi! E bravo, risponde il prete: «Il rabbino si siede lentamente, serio e silenzioso, e prende a esaminare diversi scritti, redatti a mano in yiddish su dei fogli gialli e bianchi, che sono stati disposti per tempo sul tavolo. Si tratta di pareri della giurisprudenza rabbinica internazionale riguardanti le disposizioni relative ai corpi degli ebrei uccisi durante la Shoah. Tenendo in mano un foglio giallo, solleva gli occhi e mi spiega in inglese che è stato stabilito che gli ebrei assassinati dal Terzo Reich siano considerati tsadiqim, dei "santi", e che è accordata loro la pienezza della vita eterna. Per questo, la loro tomba, sia dove sia, se sotto un'autostrada o sotto un giardino, deve essere lasciata intatta, affinché la loro pace non sia disturbata». Fonte: Pagg. 417 → 425 di "Holocaustica religio" del Dr. Gianantonio Valli

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Author(s): Olodogma
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Published: 2013-03-13
First posted on CODOH: May 12, 2017, 4:12 p.m.
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