Ho£ocau$tica religio - Fondamenti di un paradigma o£ocau$to e mondialismo
Con l'autorizzazione dell'Autore pubblichiamo un estratto da "Holocaustica religio - Psicosi ebraica, progetto mondialista", le pagine pagine 132-149, dell'edizione ©2010. Olodogma
Gianantonio Valli
HOLOCAUSTICA RELIGIO
Psicosi ebraica, progetto mondialista
seconda edizione, ampliata e corretta.Nuova versione, ampliata e reimpostata, di Holocaustica religio - Fondamenti di un paradigma © 2010 Edizioni effepi, via Balbi Piovera, 7 - 16149 Genova, [email protected]
OLOCAUSTO E MONDIALISMO
Ciò che chiamiamo «la nostra moderna civiltà» è poco meno di un gigantesco meccanismo planetario di produzione e marketing, con l'Alta Finanza come centro di controllo, dapprima solo per le transazioni commerciali e poi per tutto, anche per la politica. La massima parte dei cittadini dell'Occidente è talmente presa a rendere efficiente il Sistema e ad occuparsi, in tale competizione, dei propri affari personali, che non è in grado di riflettere sui fatti della politica né di sentirli nell'intimo. È questo, inoltre, un Sistema nel quale le opinioni difformi e il dissenso possono venire puniti nei modi più diversi.
Peter Blackwood, Das ABC der Insider, 1992
L'Olocausto, il lettore ne ha ormai preso coscienza, possiede un significato che oltrepassa la storia del secondo conflitto mondiale, talché taluno potrebbe a ragione affermare che, in realtà, non esiste una «questione olocaustica», ma una «questione ebraica», la prima non essendo che l'aspetto attuale, più immediato ed emozionale dell'eterna Judenfrage. Incastonato nella millenaria visione del mondo («religione») giudaica, della quale è il cuore attuale, esso non può venire interpretato unicamente in rapporto agli eventi dell'ultimo secolo. Le usuali categorie storiografiche e storiche non sono sufficienti, anche se è assolutamente indispensabile l'indagine scientifica, minuziosa e talora sfibrante di quanto occorse al popolo ebraico in quel conflitto, in particolare negli anni 1942-44. Richiamandoci in primo luogo alla figura del Messia quale disincarnato Progresso e in secondo alla sesta valenza del Paradigma, quella cosmico-religiosa, tiriamo quindi, più ampie, le somme. Nel 1946 il Menorah Journal di New York, organo di un giudaismo che, pur conservatore (o forse proprio per questo), ci si presenta incredibilmente più equilibrato nei confronti delle altre realtà umane, protesta contro l'Anti-Defamation League, occhiuta contro i minimi «sfregi» antiebraici, accusandola di coltivare l'eterna «doppia morale»: «Se un innocente produttore mette in un suo film una macchietta ebraica, le grida dell'ADL gli faranno desiderare di non aver più nulla a che fare con gli ebrei. Ma quando gli ebrei propagandano sottilmente la dottrina comunista [...] l'ADL tace. Non una parola, non un allarme, men che meno denuncia e condanna». Non si tratta, nota il giornalista «antisemita» Maurizio Blondet (I), della denuncia di un presunto cripto-comunismo dell'ADL, ma della critica di un'antica forma mentis, della primordiale, cieca distinzione fra «i nostri» e «i loro», che ignora, perché li precede nel tempo, il principio greco di non-contraddizione e il concetto giuridico romano di giustizia come esigenza di tutta l'umanità. Anche se gli episodi di liberticidio e censura riportati ci sembrano sufficientemente signi-ficativi e anche se i gruppi ebraici costituiscono l'insonne occhio, il ben visibile braccio e la mente lontana del Sistema Mondialista, la repressione demoliberale procede tuttavia, all'infuori di casi particolari e dei periodi di crisi, per strade più «naturali», morbide e neutre. E ciò, giusta il monito di Wizenthal: «Non è d'altra parte che per il rapporto con i neonazisti si possa indicare una ricetta collaudata: se in un caso è opportuno dedicar loro la minima attenzione possibile e comunque ridicolizzarli, in un altro caso può esser necessario, all'opposto, reagire con durezza e decisione». Come nota Stefano Vaj nell'introduzione a «Il sistema per uccidere i popoli», «la caratte-ristica precipua del Sistema, che oggi esercita la sua azione alienante e repressiva in gradi diversi su tutti i popoli e tutte le culture, è in effetti quella di essere costituito da un insieme di struttura di potere – di carattere principalmente economico e culturale, ma anche direttamente politico, tramite le grandi potenze e le istituzioni internazionali – completamente inorganico, funzionante in modo meccanico, senza altro significato che la propria sopravvivenza ed espansione in vista di un'uscita definitiva dell'umanità dalla storia. La sua natura è quella di una macchina, tecnicamente regolata, che svolge il proprio lavoro in parte in modo "discreto", ma in parte ancora maggiore alla luce del sole, allo scopo di farla finita proprio con gli scopi, con la libertà e la responsabilità delle scelte storiche, con le differenziazioni ed i conflitti che ne-cessariamente ne derivano. Il significato storico della realtà del Sistema diventa così trasparente. Da un punto di vista ideale esso non è che il compimento e l'espressione materializzata della visione del mondo ugualitaria che, passata per la sua fase mitica e per la sua fase prettamente ideologica, fonda oggi la sua "teoria sintetica" e il raggiungimento della sua completa ege-monia su basi essenzialmente sociologiche. Su un piano più concreto, il Sistema rappresenta lo sbocco finale, il punto di maggior potenza – e di maggior decadenza – della civilizzazione occidentale nata dall'incontro della forza espansiva della cultura europea con i valori giudeocristiani e poi borghesi. Da ciò un ulteriore problema per i popoli europei: per quanto oggi il baricentro del Sistema cada fuori dall'Europa e questa si trovi sottoposta ad un regime di tipo coloniale, il sistema occidentale si presenta nei suoi confronti molto più come un cancro piuttosto che come un'infezione proveniente dall'esterno, e perciò è tanto più difficile da isolare e combattere». Il Sistema demoliberale, del quale il sottosistema mediatico è l'icona più significativa per suggestività, approccio globale ed espansione, è un fenomeno storicamente inedito sia perché la sua portata trascende gli ambiti nazionali, esercitando la sua azione alienante su tutti i popoli e svuotando di senso tutte le culture, sia perché la sua incidenza va al di là dei parlamenti e delle anticamere ministeriali, sedi della politica nella sua accezione più miope. Contrariamente a certe tesi, nessun «direttore d'orchestra» più o meno occulto governa oggi il Libero Occi-dente, nessuna volontà programma l'insieme con decisioni globali a lungo termine. Il vero potere non ha ubicazione né volto, non s'incarna in figure come i presidenti americani e nemmeno nei proprietari o nei dirigenti delle multinazionali, e neppure in questo od in quel rappresentante dell'Alta Finanza. Tutti costoro hanno certamente un loro potere, altrettanto certamente di gran lunga più forte di quello degli altri mortali, ma non sono questi poteri settoriali a determinare la direzione dello sviluppo delle società occidentali, e quindi l'atteggiamento delle masse mondiali di fronte agli innumeri problemi del momento, verso quella perversa, e fortunatamente impossibile, fine della Storia cantata dal nippo-americano Francis Fukuyama: li determina invece la logica intrinseca del Sistema. 62 Il Sistema – la Megamacchina dell'ex marxista Serge Latouche (II) 63 – funziona in gran parte per autoregolazione incitativa. I centri di decisione, scrive Faye (I), influiscono, tramite gli investimenti, le tattiche economiche e gli accorgimenti tecnologici, sulle forme di vita so-ciale senza che vi sia concertazione d'assieme. Strategie separate e impostate sul breve termine s'incontrano e convergono. L'autoregolazione globale è oggi esercitata ed imposta da un classe tecnocratica cosmopolita composta da amministratori, manager e decisori finanziari che non sono i proprietari dei mezzi di produzione. Ancor più, prima che dal profitto, essi sono guidati dal razionalismo, ritenuto autonomo, del loro pensiero. Non esistono più decisioni politiche; il termine stesso di decisione, che implica sempre una volontà, cioè una scelta di sostanza e un progetto alternativo, perde ogni significato, sostituito dal termine «neutro» di «riconoscimento tecnico» (meglio, tecnocratico). In realtà, la decisione è stata presa in precedenza – in anni, in decenni lontani – sulla base di una fantasmatica religioso-ideologica e di un progetto esistenziale-politico della cui sin-golarità si è persa memoria perché si ritiene l'oggi l'unica forma possibile di esistenza, l'unico orizzonte naturale, logico, umano. L'ideologia universalista/tecnocratica – l'«imperativo tec-nologico» e il «teatro globale» – ci viene presentata senza alternativa. «Non c'è scelta», ci sentiamo dire. Le strategie petrolifere che compromettono l'indipendenza dell'Europa – così come lo sviluppo che annienta la cultura eschimese – sarebbero indotte da «esigenze tecniche» impossibili da aggirare. Inoltre, se gli assertori di tale determinismo celano talora dietro tale asserzione dottrine, interessi e obiettivi precisi, nella maggior parte dei casi essi credono realmente che sia impossibile opporsi alla logica dello sviluppo (come anche, in parallelo, a quella dell'invasionismo: ma perché parlare di «inevitabile mescolanza di uomini e culture»? la cosa non è affatto inevitabile: tutto qui). Il sociologo Franco Ferrarotti – già adepto del partito-azienda Comunità, fondato dall'e-breo tecno-mondialista Adriano Olivetti, cui subentra nel 1958 quale deputato – pluripresenzialista televisivo trasudante odio antirazzista da ogni poro, è tra i più organici intellettuali del Sistema. Nel 1993, dedicando un libro all'amica ebrea, inneggia alle bellezze del multirazzialismo, rinnova l'Operazione Carpentras, osceno pretesto alla Fabius-Gayssot, 64 bacchetta la lucidità del pur sterminazionista Arno Mayer contro «la fosca iniziativa del revisionismo», definisce à la exterminationniste l'Olocausto «questione umana globale», fantastica di pub-blicazioni revisioniste «a grande tiratura e di stile popolare» (quando ovunque imperversano, taciuti al demopubblico, sequestri, rovina finanziaria e carcere per delitti di opinione!), con-danna «il pregiudizio eurocentrico [...] che aiuta il ritorno del neonazismo». Coerentemente egli quindi collega, in una mondialistica brama di assassinio dell'Europa: olosterminazionismo, difesa dell'invasionismo e criminalizzazione di chi tale invasione contrasti. Il tutto condito dalla consueta banalità liberale da Anima Pia («dallo straniero la salvezza», scriverà ancora nel 1999, sei anni dopo). Anch'egli tuttavia ci partecipa criticamente il mostruoso carattere di un modo di vita che ha ormai solo gestori e non dirigenti: «L'americanizzazione del pianeta, in questa situazione, non è il risultato di un consapevole progetto politico; è l'esito inevitabile, necessario e necessitante, di una logica meccanica che nessuno sembra oggi in grado di arrestare, mitigare, se non radicalmente riorientare. Il processo di industrializzazione, così come lo stanno vivendo oggi l'A-merica e domani il mondo, ha questo di terribile: questo processo non può fermarsi, non è in grado di arrestarsi, non dispone di servomeccanismi che ne blocchino il procedere quando questo coincide con la distruzione del tipo d'uomo che da millenni abbiamo imparato a conoscere e dell'habitat che gli è necessario per garantirsi l'autoperpetuazione, delle condizioni di equi-librio ecosistemico che sono alla base della sua vita». Questo processo di industrializzazione, continua Ferrarotti e ribadiscono con maggiore coerenza gli italiani Aldo e Lamberto Sacchetti, Luisa Bonesio, Enzo Caprioli, Rutilio Ser-monti, Silvio Waldner, Maurizio Pallante e Marco Linguardo, i francesi Serge Latouche, Ma-xime Laguerre e Jean-Pierre Berlan, i tedeschi Manfred Gerstenfeld e Gerhard Pfreundschuh, gli inglesi Rupert Sheldrake, Nicholas Hildyard, Martin Rees e Felicity Lawrence, gli americani Bill McKibben e Niles Eldredge, l'australiano Tim Flannery e persino gli ebrei Jeremy Rifkin, Edward Goldsmith e Giorgio Morpurgo, imperniato sulla «ricerca della felicità» e su un progresso tecnico fine a se stesso e la massimizzazione del profitto come supremo criterio gestionale, non ha il senso del limite ma continua, coacervo di cellule impazzite, ad autoriprodursi. Passando da fasi di sovrapproduzione a fasi di sottoconsumo, nutrendosi di crisi cicliche di varia forma ed ampiezza, dilagando senza idea né meta non riducibili a lucro contabile, il Sistema avanza metastatico fino a devastare e coprire di costruzioni orribili – ove si pigia, lavora e vivacchia una subumanità neotecnica e al contempo neotrogloditica – la faccia della terra, cancellando sotto l'asfalto le zolle, le acque, gli alberi, tutto ciò che era Natura. 65 In realtà esiste uno iato ben netto tra il sentimento (e la coscienza) della impossibilità di una riforma degli attuali modelli di vita a meno di catastrofi non desiderabili o non ipotizzabili (il mesto/compiaciuto «indietro non si torna») e il sentimento (e la coscienza) non solo della forza mostruosa, ma dell'immoralità di tale Sistema e della sua insostenibilità, a tempi anche brevi, da parte del cosmo terracqueo. Tale iato viene invece negato non solo dalla personale comodità e dalle proprie più o meno legittime ragioni di vita, ma soprattutto – visto che un vero agire politico non solo è oltremodo difficile, ma impossibile nell'attuale temperie – dalla pigrizia intellettuale degli esseri umani. Pigrizia, per vincere la quale occorrerebbero, tra l'al-tro, non lotte contro giganti, ma un minimo di onestà con se stessi e di freddezza mentale. Solo i massmedia, il cinema, la radio e la televisione hanno creato la possibilità di un sistema di grandi numeri nel quale ogni individuo è un semplice elemento di una «folla solitaria», senza mediazioni territoriali, sociali o familiari a tutelare, potenziare, ricostruire una zona di identità. Solo tali mezzi di comunicazione di massa hanno reso possibile la devastazione della Memoria, la sostituzione dell'individuo, maschera intercambiabile, alla continuità della famiglia e della stirpe, al radicamento nel Sangue e Suolo. Uno dei modi di considerare la storia del Novecento, con la lotta epocale tra Fascismo da un lato e Democrazia e Comunismo dall'altro – quarta Guerra Laica di Religione 66 – è di riguardarla come uno scontro sul modo di gestire tale situazione, sul modo di ricostruire cer-tezze, radici e legami. Ancor prima, è di considerare quale avrebbe dovuto essere la sostanza di queste certezze, radici, legami. In che misura sarebbe stato possibile gestire la Modernità nelle sue conseguenze produttive, economiche e sociali? in che misura sarebbe stato possibile contrapporlesi nei postulati fondanti (la fede nel progresso, la convinzione che l'economia è il destino, la persuasione che l'individuo, emancipato dalle proprie appartenenze naturali, sarebbe per ciò stesso più felice e migliore)? in che misura sarebbe essa stata compatibile con la più genuina essenza, materiale come spirituale, dell'essere umani? in che misura sarebbe stato lecito resisterle o favorirla? in che misura sarebbe stato opportuno, etico e giusto salvare l'eredità del passato, salvare e rinnovare il passato stesso? con quali mezzi sarebbe stato possibile incidere, a sostegno dell'un senso o dell'altro, sulla vita di miliardi di uomini? L'uguaglianza comporta interscambiabilità, annullamento delle differenze, l'anonimato per gli individui e il meticciato per i popoli, il disperdersi e il morire della memoria dei padri, l'esistenza in un eterno presente, la fine della Storia. Sarebbe stato possibile, per l'uomo come per i popoli, evitare l'anonimato, quanto di più innaturale possa esserci per ogni vivente, per la Vita? Sarebbe stata possibile la vittoria delle Tradizioni, dell'anima del singolo uomo come di ogni civiltà, contro lo spirito, devastato dall'Allucinazione del Regno, contro la razio-intellettualizzazione giudaico-discesa? Sarebbe stato possibile ricostruire, frenando la demagogia del Progresso, dominando la Modernità e l'economia, piegandole a un progetto esistenziale e po-litico, a una volontà, una fede lontana, sarebbe stato possibile difendere e potenziare la Me-moria, recuperare e ricostruire un'identità di origini, razze e radicamenti? Come è noto, alle «società di sovranità» e alle «società disciplinari» di un tempo è suben-trata la «società dell'informazione» o per esser più giusti, considerata non solo l'allucinante ridondanza ma proprio la strutturale menzogna del Messaggio, «della dis-informazione» (e comunque un qualche disciplinatore, poco apparente, esiste pur sempre). Com'è noto, ha vinto un altro modello, un modello che si fonda sull'effimero, l'assimilazione, l'esaltazione e il potenziamento dell'anonimato, il modello del Mercato dove le merci passano di mano in mano, indifferenti all'identità degli acquirenti e dei venditori, sull'unica base delle loro quantità (o di qualità standardizzate, dunque quantificate). Ha vinto il modello di una Comunicazione sempre più doverosa e caotica, di una Comunicazione che, gravida della promessa di una nuova comunione planetaria, si è caricata della funzione redentrice dell'antico Regno. Un Mercato e una Comunicazione dove il valore della persona non è più collegato all'«es-sere» spirituale della stirpe, ma all'individualismo più sfrenato, al mero possesso materiale, al turbinio sconclusionato di immagini e parole, al bruto, democratico «avere» delle cose. Un Mercato e una Comunicazione che hanno vinto sulla base dell'annientamento di decine di milioni esseri umani (undici quelli persi dalla sola Germania, sublime Terra di Mezzo). Che han-no vinto dopo la più feroce Rieducazione – la Terza Guerra, sofisticato prolungamento delle bibliche Doglie Messianiche – che la storia ricordi. Che hanno vinto cercando di distruggere il concetto tradizionale di storia – quella degli eventi, delle cifre e delle date – sostituendolo con la storia «delle mentalità» e, ancor peggio, con sofismi psico-antropo-sociologici. Che hanno vinto attraverso l'incessante mobilitazione di un perverso moralismo giudaico-disceso e di una perversa coscienza pseudo-politica, al fine di impedire il riconoscimento della complessità del passato. Che hanno reso impraticabile la lettura del passato, impossibile ogni difforme interpretazione. Che hanno creato, con ottusa ferocia, un'incredibile guazzabuglio fantateologico per eternare il Male Assoluto. Che cercano oggi, «proponendo» una mostruosa rete planetaria di banche-dati telematiche, di coartare ogni Informazione, cercando di eternare immondi Immaginarii e mortiferi Paradigmi. Evitare che qualcosa si muova veramente – nel turbinìo verminoso ed immoto dell'Oggi – fuggire gli scontri, medicare le tensioni con rimedi illusori, spegnere a parole i conflitti, pro-crastinare provvedimenti radicali a problemi sempre più incancreniti: nel Sistema la politica non degenera solo in pura gestione, in Old Deal, ma dà vita a manovre anti-scelta. Anche tutta la scienza dei politologi non consiste nel suggerire come governare, cioè come scegliere, ma come evitare di agire, come procedere tecnicamente per sedare, appianare, conciliare, arbi-trare, stabilizzare la potente, e pur effimera, ragnatela del Sistema, mostro al quale come non mai va applicata l'espressione coniata da Hans Sedlmayr per l'arte moderna: perdita del centro. Come aizza il socialista «francese» Gran Consigliere di Stato Jacques Attali su le Monde il 4 marzo 1997: «Entriamo in un secolo nomade, e la prima virtù del nomade è di essere accogliente verso gli stranieri, perché sa che anche lui, un giorno, sarà straniero da qualche parte, e che l'accoglienza che riceverà dipenderà largamente dall'ospitalità che avrà dimostrato. Ri-fiutare i lavoratori stranieri, presenti e futuri, è rischiare rappresaglie. La Francia perderebbe posti di lavoro ben più di quanti ne guadagnerebbe. La Francia deve accontentarsi di ricevere sul suo suolo solo i lavoratori europei o farsi invece carico attivo della sua dimensione musulmana? Se la Francia e l'Europa decideranno di dirsi un club cristiano, dovranno prepararsi allo scontro con un miliardo di uomini, a una vera guerra di civiltà [in realtà, lo scontro è già ini-ziato, è solo poco avvertito in virtù degli incessanti cedimenti europei di fronte alla crescente aggressività degli invasori: si consideri solo la viltà della ministra verde dell'Ambiente Do-minique Voynet la quale, percossa a Dôle nel 1999, non denuncia gli aggressori, dichiarando implicitamente che le violenze afro-magrebine sono non solo scusabili ma anche legittime, «per non essere tacciata di razzismo» e non portare, tali sempre le sue parole, argomenti a favore di chi lega immigrazione e delinquenza]. Con, in primo luogo, in Francia, una guerra civile. Perché la Francia, per le sue antiche scelte geopolitiche, è una nazione musulmana. L'islam è la religione di oltre due milioni di cittadini francesi e di un terzo degli immigrati. Sa-rebbe dunque saggio fare la scelta opposta e assumere con fierezza la nostra [nostra!] dimen-sione musulmana, nello stretto rispetto della legalità repubblicana. La Francia trarrebbe grande profitto dalle grandi manovre geostrategiche che si annunciano; in effetti, ha la fortuna di avere, sul proprio suolo e tra i cittadini, gente in grado da fare da ponte con una civiltà mag-giore in piena espansione. Dovrebbe in particolare, in questo senso, farsi il primo avvocato dell'ammissione della Turchia nell'Unione Europea [...] L'integrazione non sarà dunque una mutilazione. Il futuro sarà infatti della pluri-appartenenza, fattore di tolleranza, ed egualmente della pluri-cittadinanza [multi-allégeance], fattore di democrazia». Non si pensi tuttavia che il Nuovo Cielo compaia senza dolore, poiché sempre in agguato, doverose, sono le Doglie Messianiche della Grande Sfida. In tal modo, invocando i «transumani», così liricheggia il gros bonnet (II), tra qualche scossone logico, sempre intriso di delirio isaiaco: «Verrà allora a delinearsi, al di là di immensi disordini, qualcosa come la promessa di un meticciato planetario, di una terra che sia ospitale per tutti i viandanti della vita [...] Sia il mercato sia la fede avranno un posto: condizione della diversità è la transumanità. Il trans-umano avrà il diritto di appartenere, nello stesso tempo, a più di una tribù, obbedendo, a se-conda dei luoghi in cui si trova, a diverse regole di appartenenza, a molti rituali di passaggio, a diverse forme di educazione e a più codici di ospitalità. Dovrà assumere lealmente queste molteplici appartenenze. Così, potrà vivere di simultanee passioni, di sincerità parallele. In particolare, la poliandria e la poligamia gli consentiranno di dividere con altri, provvisoria-mente o stabilmente, un tetto, i beni, i progetti, un compagno o una compagna, senza tuttavia di desiderare di avere o allevare insieme dei figli, né portare lo stesso nome, né avere relazioni sentimentali o sessuali [...] Potrà mescolare le culture, le fedi, le dottrine, le religioni; potrà, a suo piacere, prendere elementi dell'una e dell'altra senza essere obbligato a intrupparsi in una chiesa o in un partito incaricato di pensare per lui [...] Nessuno sarà proprietario, nessuno sarà straniero». Ecco allora: il Sistema non mobilita gli individui, non sollecita né raccoglie la loro ade-sione, non li aliena «ricentrandoli» (poiché il centro non esiste da nessuna parte). Il dominio moderno si effettua al contrario tramite una diuturna smobilitazione, un costante decentraggio, un sistematico sradicamento che coinvolge tutte le «vecchie» strutture: la famiglia, la comunità, la nazione, l'etnia, la stirpe, il senso della diversità, del destino del singolo uomo e della sua civiltà, il rispetto dell'ambiente che lo circonda, la sacralità dell'Ordinamento – del Cosmo infinito. La società non viene vissuta né più percepita come un insieme coerente di tensioni spirituali – un organismo – ma quale aggregato casuale di reticoli e individualità. Con intima coerenza, il Sistema non integra i suoi sudditi, li dis-integra. «Noi viviamo oggi serrati entro un sistema di amministrazione di interessi economici (più semplicemente: in un'"amministrazione"), non in uno Stato» – scrive il pluriperseguitato Franco Freda (I) – «Un sistema: ossia un collegamento di interessi plutocratici, una "sistemazione di appetiti". Non in uno Stato: perché lo Stato persegue l'ordinamento integrale della comunità nazionale, mentre la sua contraffazione, il sistema, attraverso la corruzione morale e la de-generazione politica del popolo, vuole il disordinamento della comunità [...] Mentre compito del vero Stato è quello di coordinare, ritmare, coinvolgere, responsabilizzare i membri della comunità nazionale, fuzione della sua contraffazione, il sistema, è quella di disordinarli, de-ritmarli, sconvolgerli: in una parola, farli disertare dalla compagine sociale, ponendo però attenzione a fissare quel surrogato di collegamento tra gli assoggettati, necessario per man-tenere la relativa stabilità degli interessi dell'oligarchia». In parallelo, e al contrario, l'indifferenza/indifferenziazione degli esseri umani perseguita su scala planetaria da ogni Arruolato non è che il retaggio dell'antica Allucinazione, un tentativo (destinato all'insuccesso sul lungo periodo, ma distruttivo sul breve di ogni comunità umana e comunque mortifero per l'ordine naturale) di realizzare il Vecchio Sogno del Regno. «Questa unificazione del mondo» – aggiunge Latouche (I) – «porta a compimento il trionfo dell'Occi-dente. Ci si rende ben conto che al termine di questa espansione dominatrice non c'è esatta-mente una fraternità universale. Non si tratta di un trionfo dell'umanità, ma di un trionfo sull'u-manità e, come i colonizzati di un tempo, i fratelli sono anche e per prima cosa dei sudditi». L'universalismo antirazzista del Sistema si salda ancora una volta con l'individua-lismo democratico. Ancora una volta i valori discesi dalla visione giudaica del mondo si attualizzano, con la mediazione cristiana e l'incessante rimbombo del Paradigma Olo-caustico, nel Sogno, nell'attesa del Regno
Il medesimo Sogno e il medesimo Regno che God's Own Country ha imposto ed impone ai riottosi dell'universo mondo con la forza bruta dei massacri, che ha diffuso e diffonde, con letale buona coscienza olorieducante, sulle colonne di quotidiani e periodici, dalle pagine di infiniti saggi, romanzi e cartoon, dal cicaleccio della pseudocultura, dalle cattedre di ogni ordine e grado, nell'oscurità delle sale cinematografiche e dal Piccolo Schermo. «Al presente l'Europa si è arresa con assoluta voluttà ad una americanizzazione cosciente e ne chiede anzi di più» – scrisse nel 1970 il WASP John Ney, esponente tra i più radicati del-l'establishment statunitense, nell'illuminante The European Surrender "La resa europea" – «ma il subconscio degli europei è dominato dal passato e non è americanizzato». «Il pericolo non riguarda tanto il destino dell'America» – ribadisce un ventennio dopo il sociologo ungaro-americano Thomas Molnar – «quanto piuttosto quello degli europei, nel caso in cui essi si riducano ad accettare definitivamente le formule preconfezionate che gli americani fanno di tutto per propinare loro, spacciandole per vere e proprie panacee. Le nazioni e le culture europee potrebbero sopravvivere in queste condizioni? [...] Se il mondo preferisce la diversità e la varietà all'uniformità e alla "robotizzazione", se i popoli e gli individui desidera-no difendere la propria identità spirituale, culturale e nazionale contro il melting pot in cui li si vorrebbe dissolvere, allora dovranno sforzarsi di comprendere la natura intima di questa vera e propria aggressione di tipo nuovo e inusitato, con la quale si tenta di imporre loro il più igno-bile, il più squallido e il più triste dei destini». 67 «È la genetica ad insegnare che la società multirazziale è irreversibile; la freccia del tempo ha una sola direzione» – completa a fine 2000, in chiusura di millennio, Piero Sella (III) – «Se dobbiamo batterci occorre dunque farlo subito. Pentirsi domani di quanto oggi non si è fatto non servirebbe a nulla. Nessuna razza inquinata può tornare quel che era; nessun popolo che abbia perso la sua identità etnica potrà mai più recuperarla. Quel che è certo anzi è che in esso scompare l'interesse all'indipendenza politica e la voglia di difendere l'avvenire dei figli. Un popolo privo di identità diventa un gregge che si muove docile nella direzione voluta dalla Grande Finanza». La lotta degli europei per riappropriarsi – contro ogni suggestione giudaica e giudaico-discesa, cristiana o musulmana che sia, illuminista o misticizzante, di destra o di sinistra, demoliberale o socialcomunista – del proprio passato, del proprio Sistema di Valori, della propria anima, è il discrimine di questo scorcio di secolo, epoca nella quale l'essere umano si ritrova disorientato, isolato e sperduto come non mai. Se un uomo privo di passato può non essere un uomo privo di difese, un popolo privo di passato è sempre un popolo privo di difese. La lotta per il passato è allora la lotta capitale, la pre-condizione, il passaggio obbligato per definire il futuro non solo dell'Europa, ma dell'umanità. È una lotta non solo contro un bimillenario, radicale nemico, ma contro l'urgenza del tempo, contro tutte le premesse psicologiche, sociali, economiche e politiche del Mondo Nuovo quotidianamente create dai proconsoli del Sistema onde foggiare situazioni sempre meno reversibili. È una lotta, questa contro la «cloaca lassista dell'odierno Occidente» (Guillaume Faye IV), che va condotta a tutto campo, freddamente e senza illusioni, con serena intelligenza e intelligente crudezza. È una lotta che va condotta non certo «con ogni mezzo necessario» come voluto dal rivoluzionario negro Malcolm X e dal superarruolato juniorbushiano Marvin Cetron (in Ennio Caretto I), o con rovinosi attentati alla Unabomber (il contestatore globale Theodore Kaczynski, già docente a Berkeley), bensì, consci dell'assoluto squilibrio di forze tra il Sistema e i suoi critici – e per quanto sia assurdo «giocare il gioco della vita con avversari che hanno da tempo abbandonato le regole» (Wilmot Robertson) – nei limiti legali imposti dal Sistema. Identico, con toni di realistico pessimismo spengleriano, l’indomito Paolo Giachini: «Vi-vere, non scappare da questo mondo, accettarlo senza credergli, confrontarcisi, ma sul piano dello spirito. Chi pensa che questo mondo debba essere avversato fa un grave errore: lanciare sassi alla polizia, inscenare manifestazioni pacifiche, contrapporsi sul piano politico o fare il "terrorista" sono strade, nessuna esclusa, che per non avere sbocco si equivalgono. Tutto ciò significherebbe, in ultima analisi, non far altro che il gioco di quelle forze che gestiscono il potere. Esse hanno immenso bisogno di antagonisti da demonizzare, di sempre nuovi Erich Priebke: la loro linfa vitale per sopravvivere. La verità è che questo "mondo moderno" è im-mensamente più forte di tutto ciò che si potrebbe anche lontanamente pensare di contrapporgli. Ti schiaccerebbe come si fa con un insetto. Deve essere ben chiaro che l'unico modo per rendersi immune in questo mondo è, piaccia o no, rispettare le sue regole. Il segreto, si badi bene, non sta in un'arma da usare per la vittoria su di esso, ma nella ineluttabilità della sua sconfitta. Il nostro tempo è malato, bisogna lasciarlo al suo destino di possente realtà affetta da un male incurable. Il degrado è tale che qualunque intervento non potrebbe fare oramai altro che infettarci a nostra volta e al contempo offrire a questo mondo dalle ore contate altra materia per alimentare la propria neoplasia, prolungandone l'agonia e nient'altro. A noi non resta altro che aspettare, la società attuale finirà da sola [...] Che noi si abbia il tempo o meno di assistere ancora ad un altro cambiamento epocale, questo conta ben poco. Così è stato per il comunismo e così sarà, è indubbio, anche per le società del capitalismo consumista e per i loro padrini; niente di molto diverso in fondo esse sono state dal comunismo, solo un'altra faccia del materialismo». Sia però di estrema chiarezza, a noi e ad ogni lettore, che sarebbe lo stesso Sistema, Bar-baro Dominio e specchio dell'Alto Tradimento quanti mai ce ne furono, ad autorizzare i suoi nemici («diritto di resistenza»: art.20/IV del Grundgesetz) non solo all'uso di samizdat e alla messa in opera di ogni attività culturale clandestina, cosa peraltro già oggi inderogabile, ma proprio anche all'uso di ogni altro mezzo necessario – «quae medicamenta non sanant, ferrum sanat; quae ferrum non sanat, ignis sanat», ci conforta l'antica saggezza ippocratica – qualora seguitasse a delegittimarsi lacerando i suoi stessi chiffons de papier costituzionali. In particolare, annullando quel minimo ancora esistente di libertà di ricerca e parola. Cosa del resto che, data la strutturale ipocrisia, elasticità e incertezza del diritto proprie di ogni demoliberalismo, non ci stupirebbe poi più di tanto, e alla quale si è comunque di fatto ormai giunti – impedendo non solo la formazione di movimenti nonconformi o la proposizione di teorie politiche alternative, ma persino la rivisitazione critica degli immaginarii imposti dal Sistema, in primo luogo dell'Immaginario Olocaustico – in Francia, Svizzera, Austria, Ger-mania, Belgio, etc. etc. «Le sole rivoluzioni durevoli sono quelle del pensiero», scrisse un secolo fa Gustave Le Bon, aggiungendo che le rivoluzioni, come le guerre, non sono che l'esteriorizzazione di con-flitti tra forze psicologiche. E ancor prima, in «Psicologia delle folle»: «I veri sconvolgimenti storici non sono quelli che ci empiono di stupore per la loro vastità o violenza. I soli cambiamenti importanti, quelli che consentono il rinnovarsi delle civiltà, avvengono nelle opinioni, nei concetti e nelle credenze [...] Anche quando ha subito quelle modificazioni che la rendono accessibile alle folle, l'idea può agire soltanto se [...] riesce a penetrare nell'inconscio e a diven-tare un sentimento». Ed egualmente il nazionalsocialista F. Roderich-Stoltheim: «La lotta delle nazioni e delle razze per l'esistenza sarà decisa in ultima istanza non da spade e cannoni, ma dallo spirito». Ed ancora, oggi, Hans Fritz Gross: «L'indispensabile rinnovamento della società si potrà con-seguire soltanto in un lungo periodo attraverso un processo spirituale e morale». E addirittura Rabbi Giuseppe Laras: «Chi sono i veri rivoluzionari? Coloro che ribaltano, sostituendole con altre, le posizioni convenzionali e consolidate, ideologiche o pragmatiche, di comodo o, ad-dirittura, false, mostrandone l'intrinseca inadeguatezza mediante un'opera di scavo, quasi sempre scomoda e impopolare, intorno alle radici delle cose senza paure né tentennamenti» (in Arturo Schwarz). Poiché non esiste ormai più – ammesso che in qualche tempo e luogo sia mai esistito – un Palazzo d'Inverno da assaltare e far proprio, la conquista delle intelligenze e degli animi, con la duttilità di tempi e modi che un'azione globale comporta, è quindi, per chi si proponga di opporsi al Sistema, il primo e il più urgente degli obiettivi. Dato che solo il pensiero trasgres-sivo, quello che oggi fa scandalo e turba le menti, può aprire le vie al pensiero di domani approntando una piattaforma intellettuale e morale dalla quale scaturiranno altri pensieri, dato che alla base di ogni vera, non effimera affermazione politica troviamo sempre un patrimonio ideale e dato che l'affermazione di tale patrimonio richiede, all'infuori dei momenti di catastrofe, un diuturno, incessante, sfibrante lavoro sul piano della ricerca culturale e della demistificazione storico-politica, sarebbe segno di immaturità consumare un preziosissimo tempo e gli ancora più scarsi mezzi finanziari/operativi per indirizzarsi verso un attivismo presunto «politico» i cui risultati sarebbero solo: 1. una gratificazione episodica e personale, 2. un defatigante risucchio nei pratici compromessi e nelle inestricabili norme operative del Sistema, 3. il conferimento al Sistema di una patente di legittimità morale («vedete che lasciamo agire anche i nostri nemici radicali!») quando non, più brutalmente, 4. di più numerose occasioni per interventi repressivi. E questo, oltre tutto, senza ottenere da coloro che si vuole difendere e in nome dei quali si pretende parlare – rintronati, plasmati ed ottusi da tutti i massmedia – null'altro che, quan-d'anche ci fosse, qualche vago moto di simpatia. 68 «Francamente» – scrive Filippo Jacobelli, già milite della RSI – «non concordiamo troppo con quelli [...] che sparano a zero sui cosiddetti "democratici" nostrani. Ci sembra che qual-cosa di buono abbiano pur fatto e che a un minimo di gratitudine abbiano diritto da parte no-stra. Hanno avuto a disposizione cinquant'anni per dimostrare coi fatti alla gente che avevamo completamente torto. E per cinquant'anni al contrario hanno fatto del loro meglio per far capire a tutti che avevamo pienamente ragione. Anno dopo anno, giorno dopo giorno hanno fatto toccare con mano anche ai più sprovveduti che il sistema democratico-parlamentare è un sistema che crea e vive di corruzione, che è il paradiso dei vuoti parolai, degli inefficienti azzeccagarbugli; un sistema che educa al culto ossessivo dell'oro e al concreto disprezzo di ogni altro valore, che invoglia ad utilizzare il bene pubblico ai fini del bene privato, che spinge la gente a chiudersi sempre più nel "suo particulare", che usa le parole solo come strumento d'inganno, che è la calda culla della mafia, della camorra etc. a tutti i livelli e che infine, come il pifferaio della favola, cammina e guida verso la dissoluzione ed il caos che chiama, con sfrontata o cieca improntitudine, progresso». Occorre allora gridare a pieni polmoni che, quando pure non lo fosse in passato, il re è oggi nudo. Additare le contraddizioni tra le mielate parole del Sistema e la mortifera applicazione dei suoi postulati. Chiarire che il Libero Occidente – e, in prospettiva, la Cosmopoli Umana – non è la big happy family sognata dall'ideologia americana. Indicare che la liberté senza un fine è solo espressione di una neolingua orwelliana, che non ha alcun senso all'interno di un'ideologia cosmopolita. Spiegare che l'égalité dell'ideologia cristiana comporta solo abie-zione individualistica. Mostrare che la Famiglia Universale è un'informe accozzaglia ove il vicino scanna il vicino, il parente il parente; che la fraternité giudaica inizia sì con Abele, ma finisce con Caino. Occorre, da Buoni Europei eredi di un plurimillenario Sistema di Valori, non lasciarsi sedurre da alcuno che sia stato comunque permeato dal veleno di quel supergiudaismo che risponde al nome di americanismo. Occorre mostrare a chiunque che un progetto mondialista come quello imposto da Jahweh agli Arruolati non può, in quanto contronatura, che esigere repressione e che una società come quella americana, dis-integrata in isole etniche, deve necessariamente diventare uno Stato di polizia, con riduzione delle libertà e della sicurezza di ognuno. E questo perché una società, e tanto più una comunità, non si regge tanto sulle leggi – indispensabili per quel 10% di infin-gardi, devianti e criminali presente in ogni aggregato sociale – quanto sulla consapevolezza di un'eredità comune, sulla condivisione di un Sistema di Valori comune e sul sentimento di un destino comune. Occorre mostrare a chiunque che gli investimenti finanziari americani, e giudaici, in ogni paese possiedono una valenza non tanto economica, quanto soprattutto culturale e spirituale, ribadire che la propaganda americana, e giudaica, è un incessante lavaggio di cervelli che, oltre a «meri» prodotti «di svago», impone modelli di pensiero e di vita. La guerra classica mira al cuore per uccidere e conquistare, la guerra economica al ventre per sfruttare e arricchirsi, la guerra culturale alla testa per paralizzare senza uccidere, conquistare decomponendo, arricchirsi disfacendo ogni popolo. Occorre convincersi che non esistono scorciatoie e che solo un'incessante semina può portare, per quanto lontano, ad un nuovo raccolto. Riscoprire con fredda intelligenza, rivalutare con equilibrio il patrimonio ideo-storico delle tradizioni indoeuropee, ignorato, minimizzato, mistificato e stravolto dai gazzettieri del Sistema. Riscoprire con fredda intelligenza, rivalutare con equilibrio il patrimonio ideo-storico dei fascismi, soprattutto del più lucido e determinato di essi, quel nazionalsocialismo infamato da caricaturizzazioni, decontestualizzazioni e menzogne.
Occorre, prima che agire politicamente, ricercare e testimoniare, affinché l'energia della parola e la moralità dell'esempio suscitino campi di resistenza che si espandano nella società, ramificandosi – a svellerlo – in un mondo che ha inscritto in se stesso un destino di morte: «Non è forse tempo di rifarci liberi, senza timori o complessi?» – incita Eric Delcroix, indo-mito avvocato difensore dei revisionisti – «Dobbiamo essere allora i nuovi liberi pensatori! Dobbiamo riprendere la loro lotta, trasposta contro la nuova religione dell'anti-natura, contro il dogma della dissoluzione etnica!» (III). La guerra culturale, da due millenni promossa da un Sistema di Valori non europeo, ha usato delle libertà concessegli dalla buona fede europea per insinuarsi dappertutto, minare all'interno ogni Stato, annientare la spiritualità dei popoli che hanno accolto i suoi portaparola. Le guerre, la lotta politica, il saccheggio e gli accordi – eterni da che mondo è mondo – sono sempre avvenuti tra popoli che vivevano dei propri Valori come pesci nell'acqua. Ma oggi il mare è sporco e domani sarà morto. Dobbiamo forse attendere, senza nulla dire né fare, che vengano annientate tutte le comunità naturali, le etnie, le culture, i popoli, le nazioni, al fine di trasformare questi infiniti mondi spirituali in mefitiche zone commerciali cosmopolite, nelle quali l'individuo vaghi ottuso in una vita sempre più assurda e più breve? L'uomo solo e disincarnato, contrariamente all'insegnamento cristiano, marxista e liberale, non vale alcunché, è nulla. I Diritti Umani sono la più atroce impostura, inventata a profitto di coloro che ne parlano per dissolvere ogni comunità non sintonizzata sulle loro frequenze. Sono l'«arma intellettuale per distruggere le razze, le nazioni, l'umanità, forse anche la vita sulla Terra» (Gaston-Armand Amaudruz I). Una cultura è un insieme coerente di Memorie che garantisce la coesione di un popolo, impedendogli di scomparire in una massa indifferenziata di «esseri umani». Il cosmocapitalismo finanziario ebraico-anglosassone, del quale gli Stati Uniti sono oggi l'espressione più compiuta, è il male assoluto, un disastro come il mondo non ha mai conosciuto. Perché comporta l'annientamento di ogni cosa. Se qualche sistema del passato ha distrutto gli individui, fin dalla sua infanzia cristiana il Sistema ha decomposto tutte le culture, attaccato i valori che fanno la specificità delle civiltà, privato l'uomo delle sue appartenenze naturali, ridotto le nazioni a folklore. Quando pure, nella sua giovinezza e maturità, non ha distrutto, fisicamente, interi popoli. «Noi europei» – scrive il pur «francese» Pascal Bruckner – «siamo stati allevati nell'odio di noi stessi, nella certezza che vi fosse, in seno al nostro mondo, un male congenito che recla-mava vendetta senza speranza di remissione [...] Schiacciati sotto il peso di questi ricordi in-famanti, siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore, mentre i nostri padri si sono creduti i migliori. Nascere dopo la seconda guerra mondiale significava acquisire la certezza di appartenere alla feccia dell'umanità [...] Così la svalutazione del messaggio europeo è diventata un codice comune a tutta l'intellighenzia di sinistra dopo la guerra, proprio come l'odio del borghese è stato in Europa, dopo il 1917, un autentico passaporto intellettuale, quando nessun articolo poteva giustificarsi senza un'invocazione rituale al proletariato messianico [...] L'interessante, in effetti, è sapere in che modo il gergo o il delirio di un piccolo gruppo di uomini siano potuti diventare la verità di una moltitudine. La diffusione e il successo dell'enunciato terzomondista sono rivelatori. Quando un'intera epoca condivide a tal punto le stesse illusioni, non si può più parlare soltanto di accecamento o di turbamento, si tratta di un fatto culturale». È ben vero che le società patriarcali, delle quali quelle europee sono state l'esempio eti-camente più alto, hanno spesso dato prova di aggressività, culto della forza, eccessivo ago-nismo, eccessiva efficienza e volontà di potenza, ed è altrettanto vero che sono state capaci, in particolare sotto la spinta di un insano missionarismo, di opprimere altri popoli. Questo tipo di oppressione non solo è però da tempo scomparso, ma non è per nulla paragonabile alla pu-trefazione di un Sistema che, pretendendo di non attaccare nessuno in particolare, trasforma ogni popolo in massa indistinta e ogni persona in «essere umano», privo di valore intrinseco, indifferenziato e intercambiabile. Tutte le civiltà del passato hanno sempre distinto un «fuori» e un «dentro», un «noi» ed un «loro», un in-group e un out-group, un nosotros e un vosotros, condizione necessaria per ogni vita culturale (spirituale), riconoscendo, quando non infette da un Verbo, agli estranei (avversari) il diritto-dovere di comportarsi nell'identico modo. Una etnia nella quale si entra come in un mulino non è più un'etnia, ma proprio un mulino ove tutto viene macinato, ove è indifferente chi sia a portare il grano e non importa chi sia a comprare la farina purché abbia la sola cosa che non ha valore ma misura ogni prezzo: il denaro. Nulla come i soldi rende ogni uomo eguale ad un altro, nulla cancella ogni differenza di sesso, razza e religione meglio del denaro. È quindi logico e consequenziale che in una società impostata sui valori del consumo le differenze storiche, nazionali e culturali non siano altro che ostacoli (da rimuovere) sulla via di un mercato eguale per tutti. «Per il Sistema» – scrive Guillaume Faye (I) – «la coscienza storica è realmente sovver-siva. L'uomo legato alle sue radici non è un buon cliente; non mangia, non canta e non ascolta qualsiasi cosa. Ogni mira di grandezza nazionale, ogni rinascita culturale costituisce una minaccia per il cosmopolitismo occidentale. Ogni destino che sfugge all'umanitarismo, alla crescita del prodotto interno lordo o al collasso della storia nel buco nero della felicità egua-litaria costituisce un intoppo al progetto di destoricizzazione del mondo nutrito dal Sistema. Il Sistema non può volere che la fine della storia, in conformità con le ideologie egualitarie e paradisiache che l'hanno generato e che lo animano, poiché la specificità della storia sta nella metamorfosi del senso delle cose e del mondo». «La plutocrazia cosmopolita (o, se si preferisce, la finanza vagabonda)» – continua altret-tanto chiaramente Delcroix (II) – «persegue l'indebolimento delle nazioni europee, poiché i legami organici tra gli uomini non possono essere che freni sulla strada dorata della finanza, della speculazione e del consumismo divinizzato. A tale proposito l'antirazzismo è un'arma senza frontiere, indispensabile alla disgregazione delle nazionalità e di altri particolarismi non prostituibili. L'opera viene tessuta in silenzio, ogni opposizione essendo "razzista" e quindi ricacciata al di là dei confini dell'umanità. La polizia del pensiero è composta dai massmedia guidati dal denaro sonante e coadiuvati da una giustizia che sempre più allegramente si è adattata al concetto di delitto di opinione». Vampiro freddo che non ama nessuno, il Sistema non può permettersi differenze tra gli uomini, deve tutti ridurli a individui, poiché un commerciante che facesse differenze tra i clienti – tranne quelle dovute al denaro – sarebbe presto fallito. La borghesia non è più «razzista» perché non v'è più interesse ad esserlo, il denaro non avendo colore. «Una sola fabbrica. Un solo mercato» – commenta il sociologo Armand Mattelart, trattando della "Repubblica Mercantile Universale" sognata da Adam Smith – «Nessun benessere pubblico senza divisione del lavoro, specializzazione complementare e differenziazione dei compiti. Sulla carta del globo abbozzata da questa nuova ripartizione delle attività ogni nazione è chiamata a inserirsi nella misura più naturale e più favorevole ai propri interessi e a quelli di tutto il genere umano [...] Più nessuna contraddizione tra gli obblighi che competono alla morale e quelli che riguardano il commercio. L'individuo libero di vendere e comprare diventa una "sorta di mercante", e l'intera società, composta da produttori e consumatori coinvolti entrambi nel regime degli scambi, una "società di commercio". Il mercante, posta la sua indifferenza per il luogo in cui si tiene tale commercio, è indotto a considerare l'universo intero come la propria patria. Nel suo pensiero esclusivamente finalizzato al guadagno, l'indi-viduo è guidato da una "mano invisibile"». È il liberale Danton a compendiare, lapidario: «Alla suola delle scarpe è indifferente la patria» (ma già lo aveva prevenuto, altrettanto lapidario, il pur protomondialista François Fénelon, in Dialogue des morts: «La patria di un maiale è dappertutto dove ci sono le ghiande»). È il suo erede Philippe Séguin, presidente gollista dell'Assemblée nationale e cofondatore di Objectif Tolérance con la callida oloscampata Simone Veil, a predicare che «siamo tutti immigrati, cambia solo la data d'arrivo». È l'ineffabile ministra Dominique Voynet a esaltarsi nel 1995, su Les Inrockuptibles, patinato periodico dei «ribelli» neoconformisti: «Non sono mai stata quello che si chiama patriota. Non provo alcun orgoglio nazionale. Gli sciovinismi mi infastidiscono, esaltino essi le virtù della nazione, della religione o del paese. Non mi sono mai sentita parte di una comunità quale che sia [Je n'ai jamais eu la conscience d'appartenir à une communauté quelconque]». È l'ebrea Martha Nussbaum, docente di filosofia alla Brown University, a sostenere che occorre educare gli uomini a farsi «cittadini del mondo», poiché ammettendo «un confine moralmente arbitrario, come è quello della nazione, [...] ci priviamo di qualsiasi valida motiva-zione per indurre i cittadini a ignorare anche le altre barriere». Sono John Browning e l'eletto Spencer Reiss a tirare le logiche conclusioni: «Un'economia senza vincoli ha varie implica-zioni: i consumatori sono in grado di incidere sui processi produttivi [come se non fossero eterodiretti dall'onnipervadente macchina pubblicitaria!]; lo sviluppo dei mercati è accelerato; i prodotti e gli impieghi hanno vita breve. Nessuno è più legato a niente» (corsivo nostro). Ma ben più onesto nell'identificare la vera motivazione di ogni cosmopolita nel perorare e difendere l'invasione portando a morte le patrie, comunità naturali che per migliaia di anni hanno retto il civile divenire umano, è stato, nel 2002, il non-conforme pensatore israeliano Israel Adam Shamir: «I Mammoniti [leggi: capitalisti, ebrei] hanno bisogno degli immigrati per se stessi. Una società coesiva e sana rifiuta istintivamente uomini avidi di denaro, perché l'avidità di denaro è un atteggiamento socialmente distruttivo. In una civiltà sana i Mammoniti rimarrebbero dei paria. Ora, l'immigrazione distrugge la coesività delle società e i Mammoniti non amano società coesive, preferiscono società liquide e non tenute insieme da forti princìpi, così è molto facile bersele tranquillamente. Ecco perché i Mammoniti appoggiano l'immigrazione» (citato in Priebke E., Autobiografia). Il tedesco Christian Vogel, direttore dell'Istituto di Antropologia a Gottinga, afferma al contrario che «noi siamo stati e siamo tuttora legati al guinzaglio elastico degli "imperativi genetici di fitness" [norme etico-comportamentali per massimizzare la capacità di sopravvivenza della stirpe nel succedersi delle generazioni]. Di conseguenza sono state inserite in noi [...] una serie di tendenze "pre-morali" che rimandano alla storia preumana della nostra specie: prima fra tutte la regola fondamentale, che sovrasta ogni altra, dell'accurata distribuzione discriminante — secondo prossimità parentale genetica e convergenza di interessi — delle nostre attività di aiuto ovvero di danno; una propensione innata che fa apparire come un postulato estraneo alla natura ogni etica egalitariamente impegnata, in modo indifferenziato, a favore dell'umanità nel suo complesso [...] Ed è appunto da questa antichissima eredità [...] che scaturiscono le nostre tendenze di comportamento inegalitarie ed ambigue: da un lato la diffidenza, il rigetto se non l'ostilità nei confronti dei non parenti, degli estranei e degli stranieri; dall'altro l'altruismo, la disponibilità ad aiutare e a sacrificarci per i parenti e per gli esseri umani che ci sono "vicini" e con cui abbiamo confidenza». Rettore dell'Istituto di Etologia Umana Max Planck, Irenäus Eibl-Eibesfeldt applica tali conclusioni al maggiore dei problemi che travagliano l'uomo, non tacendo la sua propensione per una chiusura delle frontiere europee alle migrazioni allogene: «Se gli immigrati desiderano integrarsi in una cultura affine [...] la conflittualità potenziale è minima. Esempi in questo sen-so sono forniti dalle migrazioni interne europee [...] Ciò che contribuisce a legare è, in Europa, la comune eredità occidentale [...] Greci, Romani, Celti, Germani, Slavi e molti altri popoli hanno dato il loro contributo nel creare l'Occidente, i cui abitanti sono strettamente affini anche da un punto di vista fisico-antropologico e dunque genetico». Quando invece l'affinità di sangue non esista, «l'integrazione può diventare difficile, soprattutto se gli immigrati arrivano a ondate in un periodo relativamente breve e hanno dunque la possibilità di formare comunità sempre più vaste unendosi ai connazionali già presenti [...] L'immigrazione, in casi del genere, potrà essere causa di tensioni e di conflitti, poiché sarà vista come una vera e propria invasione. Una etnia che conceda l'immigrazione ad un'altra non disponibile a integrarsi e presente con un gran numero di individui cede la propria terra e in più limita le proprie possibilità di successo riproduttivo, perché il carico umano che un ter-ritorio può sostenere non è illimitato [...] Se gli uomini non devono temere i rappresentanti di altre culture come concorrenti, ne apprezzano le conquiste culturali e considerano la loro diversità come una variante molto attraente. Soltanto il timore di perdere la propria identità incrina la simpatia reciproca e ingenera odii collettivi capaci di spingersi fino alla follia del genocidio». Terzo ad avvertire il peso dello snaturamento dei popoli da parte del Sistema, lo storico Ernst Nolte (II), pur con tutte le viltà/inconseguenze da buon liberale, non si lascia paralizzare dal Grande Ricatto, ma ricorda, all'intervistatore che gli rammenta le «tragiche esperienze naziste» per indurlo a trangugiare il Multirazzialismo Migratorio, come tale «valvola di sfogo» serva solo a distruggere altre società senza recare il minimo sollievo alle popolazioni di partenza, aggravandone anzi la condizione: «Aiutare il prossimo e soprattutto lenire il dolore e il bisogno altrui è certamente virtù cristiana, ma questo non impedisce che l'aiuto possa venire prestato là dove sorge il bisogno. Nel nostro caso, vuol dire che questo migrare verso l'Europa e l'America non sempre ha ragione d'essere e non è qualcosa di ineluttabile, cui contrapporre solo le ragioni del nostro egoismo o semplicemente la preservazione della nostra individualità culturale, per quanto preziosa possa essere. Questo è un fenomeno che non danneggia solo gli europei o gli americani, ma è una privazione in primo luogo per le popolazioni che migrano, le quali si vedono esposte a subire i condizionamenti di un modo di vita loro estraneo, il che li depaupera dal punto di vista della ricchezza spirituale, anche se può offrire loro sollievo materiale [...] Per correttezza si dovrebbe dire che chi emigra da questi paesi non è la popolazione nel suo complesso, ma tre componenti di essa: i più capaci, i più attivi, i più discutibili, questi ultimi con più spiccata tendenza ad attività illecite [...] Queste migrazioni gigantesche da aree geografiche disomogenee e scarsamente sviluppate, quando non contenute in limiti sopportabili e controllabili, finiscono per essere dannose non solo per i paesi ospitanti, ma per le stesse regioni di provenienza. In questi casi è necessaria la chiarezza. Bisogna avere il coraggio di dire, talvolta anche con una certa energia: noi siamo intenzionati ad aiutarvi, ma cercate di aiutarvi voi per primi, là dove sono le vostre terre d'origine, esattamente come abbiamo fatto noi con lo sviluppo della civiltà occidentale. Il nostro intento è d'esservi utili, ma non al prezzo di sconvolgere il nostro sistema di vita, al punto di compromettere gli equilibri su cui poggia. Da questi equilibri dipende la sopravvivenza di chi ormai lavora qui e, conseguentemente, anche di coloro che sono rimasti nei loro paesi di appartenenza». Ed ancora, un anno più tardi, rilevando la minaccia mortale (IV): «Temo che adesso il contrasto coi princìpi etici si faccia più duro, che tali princìpi perdano forza e resti solo il pursuit of happiness, il mero edonismo. Il vago umanitarismo che sembra dominare in Occidente è in effetti utile alle minoranze, ma copre l'individualismo radicale della società liberista. E questo è il grande pericolo [...] Il pericolo principale, quello che riguarda la realtà originaria dell'uomo, è il rapporto con le generazioni future, la volontà di continuarsi. Il crollo demografico della società occidentale è il sintomo più evidente e terribile di questa incapacità di superare il mero individualismo dei singoli. Già solo questo fattore demografico è in grado di affondare l'Europa in alcuni decenni. È un segno dello sfinimento morale di una nazione». «Una nazione» – conclude lo storico, chiamando a ribellione (V) – «nella quale questa tendenza è diventata regola generale si estingue progressivamente e ha davanti agli occhi la propria scomparsa definitiva. Ma per poco che una grande parte degli individui possa essere preoccupata da questo, certo è che tutti terranno fermi quei vantaggi che sono loro pervenuti dal lavoro dei loro antenati, mentre un'altra parte potrà decidere per una resistenza disperata. Non meno forti saranno le richieste e gli attacchi di coloro nei quali l'individualismo non è, o non è ancora, diventato l'unica forza determinante e che contestano i privilegi di coloro che sono più forti in ragione calcolatrice e più deboli in energia vitale tradizionalmente morale». «L'uomo disidratato regnerà in un mondo igienico» – aveva scritto Maurice Bardèche – «Immensi bazar echeggianti di pick-up simboleggeranno questa razza a prezzo unico. Mar-ciapiedi mobili percorreranno le vie e trasporteranno ogni mattina a un lavoro da schiavi la lunga fila di uomini senza volto che la sera riporteranno indietro. Questa sarà la terra pro-messa. Coloro che adoperano i marciapiedi mobili non sapranno che sia mai esistita una condizione umana. Non sapranno ciò che erano le nostre città, quando erano le nostre città [...] Si meraviglieranno che la terra sia stata bella e che noi l'abbiamo amata. La coscienza universale pulita, teorica, tagliata a forma di stella, illuminerà i loro cieli. Ma sarà la terra promessa. E in alto regnerà la "persona umana", quella per cui si è fatta questa guerra e che ha inventato questa legge. Giacché, alla fine, si ha un bel dire: una "persona umana" c'è. Non è i tedeschi del Volga, non i baltici, non i cinesi, non i malgasci, non gli annamiti, non i cechi, non i proletari, beniteso. Noi sappiamo bene chi sia la "persona umana" [...] Questi catecumeni dell'umanità nuova hanno le loro abitudini, che sono sacre. Non lavorano la terra, non pro-ducono nulla, non vogliono essere schiavi. Non si mescolano agli uomini del marciapiede mobile: li contano invece, e li avviano verso i compiti loro assegnati. Non fanno la guerra, ma amano insediarsi nelle botteghe brillanti e illuminate dove, la sera, vendono carissime all'uomo del marciapiede le cose che egli stesso ha fabbricato e che hanno comprato da lui a poco prezzo. Formano un ordine: hanno questo in comune coi nostri antichi cavalieri. Non è forse giusto, dopo tutto, che siano tenuti a parte dagli altri uomini, poiché sono i più sensibili alla voce della coscienza universale e ci offrono il modello a cui dobbiamo conformarci? I loro gran sacerdoti vivono in capitali lontane. Essi venerano in loro i rappresentanti di quelle fami-glie illustri, celebri per il molto denaro guadagnato e per la pubblicità fatta. E sono felici di leggere sugli stemmi di questi eroi la cifra dei loro dividendi. Ma questi potenti hanno grandi preoccupazioni. Meditano sulla carta del mondo e decidono che il tal paese produrrà arance e il tal altro cannoni. Chinati sui grafici, incanalano milioni di schiavi del marciapiede mobile e, nella loro saggezza, stabiliscono il numero delle camicie che saranno autorizzati a comprare nell'anno e la cifra delle calorie che saranno date loro per vivere. Il lavoro degli altri uomini circola e s'iscrive sui muri del loro gabinetto come in quei quadri a tubature trasparenti in cui corrono ininterrottamente linfe colorate. Sono i macchinisti dell'universo. Chi si ribella a loro alza la voce contro gli dei. Partiscono e decidono: e i loro servi, ai quadrivi, ricevono rico-noscenti gli ordini e indicano la direzione all'uomo del marciapiede mobile. Così funziona il mondo senza frontiere, il mondo ove ciascuno è a casa propria, il mondo il cui nome è Terra Promessa». A questo punto, nota Bardèche – e per apprezzarne fino in fondo l'acume ricordi il lettore che non scrive nei nostri anni felici, ma nel lontanissimo 1949 – «vediamo dispiegarsi davanti ai nostri occhi il panorama del nuovo sistema [...] non si tratta più di servaggio ma di in-gerenza, non di controllo ma di pianificazione, non di malthusianesimo ma di esportazioni organizzate; ancor meno di occupazione, soltanto invece di conferenze internazionali, le quali sono una specie di consulti medici sulla nostra temperatura democratica. Intorno al tavolo ci sono tutti, ognuno ha la sua scheda per votare. Non ci sono vinti o vincitori. La libertà regna e ciascuno respira non come si respira con un polmone artificiale, ma come si respira nella cabina di un batiscafo o di un aerostato dove la quantità di ossigeno è regolata da un sapiente meccanismo di immissione. Tutti hanno deposto all'entrata un certo numero di idee false e di pretese superflue, come i maomettani depongono le babbucce prima di entrare nella moschea. Tutti sono liberi, perché ognuno prima di entrare ha giurato di rispettare in eterno i princìpi democratici, ha firmato cioè, prima di ogni altra cosa, un abbonamento perpetuo alla costi-tuzione degli Stati Uniti. Non è forse questa la felicità? Non è un compromesso felice tra i due ostacoli che ci fermavano? Così la quadratura del cerchio viene risolta. La Germania è con-dannata non solo per avere violato il trattato di Versailles, ma essenzialmente per aver agito contro lo spirito e gli editti della coscienza universale e cioè della democrazia. Può riprendere però il suo rango tra le altre nazioni libere, se giurerà fedeltà alla dea offesa». Quali sono le conseguenze pratiche di tale impostazione non tanto politica quanto con-cettuale e quindi esistenziale? Presto detto: «Il ridurre gli Stati alla condizione di privati citta-dini ha come primo risultato il consacramento dell'"attuale" distribuzione della ricchezza nel mondo. L'ineguaglianza sociale si riproduce nella medesima misura negli Stati, e nel me-desimo rapporto con gli istituti giuridici. Il cittadino cioè è nominato guardiano dell'ineguaglianza che l'opprime [...] Voi siete liberi, ci si dice, ma liberi a patto di accettare la vostra sorte. Avete diritti uguali a quelli degli altri, ma dovete sapere che gli altri hanno rinunciato al diritto di discutere l'essenziale [...] Democrazia e immobilità: ecco la nostra divisa: tutto va per il meglio nel migliore dei mondi, e perciò s'invitano i diseredati a montare la guardia davanti al patrimonio dei giusti. S'incontrano così e si compenetrano due uomini all'apparenza estranei, il morale e l'economico. Norimberga pretende di garantire la pace. Accade però che la pace e la coscienza universale, benché seggano nell'empireo, sono come i re i quali, diceva Montaigne, sono sì seduti sui loro troni, ma sono pur sempre seduti sul culo». Prefigurando l'approvazione di leggi demorepressive à la Mancino/Mastella (tanto per fermarci in Italia), Bardèche traccia, con sbalorditiva precisione per l'epoca in cui fu stilato, il profilo della Quarta Guerra: «Dapprima, abbiamo imparato che non avevamo il diritto di riunirci sulla piazza davanti alla casa del cadì [metaforico: dall'arabo qadi, "giudice"], e di dire: "Questa città fu dei nostri padri ed ora è nostra, questi campi furono dei nostri padri e perciò ci appartengono". E adesso il cadì non ha più il diritto di camminare preceduto dalla spada della giustizia: egli ha abbandonato la sua sovranità, ecco agenti bellissimi con un casco bianco in testa i quali annunciano la pace e la prosperità. Benvenuti, agenti dei nostri padroni! [...] In questo mondo che poco fa sentivamo fluido, sfuggente a ogni definizione e certezza, c'è finalmente qualcosa di stabile, di definitivo, di irrevocabile: le leggi che ci rendono tributari. Da noi, nelle nostre città, più nulla vi è di sicuro, non esistono più limiti certi tra il bene e il male, non vi è più terra su cui poggiare i piedi: ma sopra di noi un'architettura vigorosa co-mincia a disegnarsi. Il cittadino francese, tedesco, spagnolo, italiano non sa bene quale sorte sia a lui riservata, ma il cittadino del mondo sa che l'impalcatura armoniosa dei patti si innalza per lui. La sua persona è sacra, le sue merci sono sacre, i prezzi di costo sono sacri, i margini di guadagno sono sacri. La repubblica universale è la repubblica dei mercanti. La lotteria della storia è ferma una volta per tutte. Vi è una sola legge, quella che permette la conservazione dei guadagni. Tutto è permesso, salvo il tornare su queste cose. La distribuzione dei lotti è definitiva. Siete in perpetuo venditore o compratore, ricco o povero per sempre, padrone o tributario fino alla fine dei secoli. Là dove le sovranità nazionali si spengono, comincia a ri-splendere la dittatura economica mondiale. Un popolo non ha più alcun potere contro i mercanti se ha rinunciato al diritto di dire: "Ecco i contratti, ecco gli usi, e voi pagherete questa decima per sedervi". Gli Stati Uniti del Mondo sono una concezione politica soltanto apparentemente: in realtà si tratta di una concezione economica. Questo mondo immobile non sarà più che un'enorme Borsa: Winnipeg dà il corso del grano, New York quello del rame, Pretoria dell'oro, Amsterdam del diamante. Quale rimedio ci rimane se non siamo d'accordo? La discussione tra ricco e povero? Ne conosciamo i risultati». «Ci rimane però una consolazione, ed è la coscienza universale che ci governa. Giuristi perfettamente aggiornati ci portano leggi già fatte. Essi sono i guardiani della vestale Demo-crazia. Simili ai grassi eunuchi che sorvegliano le strade dell'harem, hanno un volto scono-sciuto e parlano un linguaggio a noi incomprensibile. Sono gli interpreti delle nuvole. La loro funzione consiste nel metterci a portata di mano i preziosi misteri della libertà, della pace, della verità [...] Oggi la giustizia e la mansuetudine illuminano le vostre fronti! Ingegneri invisibili tracciano con una cordicella il nostro universo. Avevamo una casa, avremo al suo posto la pianta di una casa. Un occhio in mezzo a un triangolo, come sulla copertina di un catechismo, governa la nuova creazione politica. Gli idealisti si sono scatenati. Ogni produttore di mostri ha diritto di parola. Il nostro mondo sarà bianco come una clinica, silenzioso come una camera mortuaria [...] Le nazioni sono evirate. La teoria degli Stati Uniti del Mondo è un'impostura fondata su un postulato politico, e il postulato dell'eccellenza democratica è un postulato esattamente simile a quello dell'eccellenza del marxismo. È inoltre un mezzo di intervento come lo è il marxismo. Noi non siamo più uomini liberi: non lo siamo più da quando il tribunale di Norimberga ha proclamato che sopra le nostre volontà nazionali esiste una volontà universale la quale, sola, può emanare le vere leggi. Non è il piano Marshall a minacciare la nostra indipendenza, sono i princìpi di Norimberga». «Bisogna avere la lucidità di ammetterlo» – incalza il francese André Béjin – «la condanna attuale del "razzismo" è il risultato non di una ineluttabile evoluzione della coscienza morale, ma, in gran parte, di quel caso della storia recente che è stata la sconfitta militare della Ger-mania nazista, la quale aveva fatto del razzismo lo zoccolo dottrinario essenziale della propria azione politica» (sulla stessa linea, l'ebraico duo Shermer-Grobman riconosce – stropicciamoci gli occhi! – che «senza l'Olocausto forse il fascismo sembrerebbe un'alternativa più accettabile alla democrazia»). Similmente commenta su AGRIculture (n.3, maggio 2000), riferendo dell'incontro all'Ac-cademia dei Georgofili sul tema della globalizzazione, il giornalista A. Santini: «Opporsi alle conseguenze politiche della grande unificazione economica è possibile solo evocando spettri paurosi: quello del razzismo, quello del nazionalismo, scontri che risvegliano nei popoli i sen-timenti della contrapposizione, del confronto ideale e militare [...] Contro la ragione di quel processo si oppongono i rigurgiti di odio nazionalistico» (profittando dell'occasione, prende al balzo la palla l'ex boss World Trade Organization Renato Ruggiero: «L'Europa deve trattare con la disponibilità a cedere, pronta a rinunciare alla protezione della propria agricoltura, a lasciare che il proprio mercato interno lo conquistino le derrate di continenti diversi»). Similmente il Centro Militare di Studi Strategici nel Rapporto di ricerca su movimenti mi-gratori e sicurezza nazionale: «Tanto le manifestazioni d'antisemitismo quanto il razzismo contro gli uomini e le donne dalla pelle di colore diverso appaiono naturalmente tanto più gravi in quanto avvengono sul mostruoso sfondo storico di quanto è già avvenuto, in passato, proprio in Germania» (ovvio quindi – a parte, visto l'assassinio dell'anima tedesca cercato dai Rieducatori, l'«autoimposti» – il commento di Paolo Valentino II sulla BRD, indotta ad eleggersi «terra d'asilo per eccellenza, un altro degli obblighi morali autoimposti dopo la tragedia e gli orrori del nazismo»). Similmente Gitta Sereny: «Giusto o sbagliato che sia, è il genocidio degli ebrei che dalla fi-ne del Terzo Reich domina non solo il giudizio del mondo nei confronti del nazismo, ma anche la coscienza della maggior parte dei tedeschi». Similmente Fiamma Nirenstein (I), illustrandoci la potenza del Paradigma, in particolare quanto ai confrères: «Si può capire bene che la parola razzismo suoni disgustosa, dopo che il XX secolo le ha impresso l'impronta dell'assassinio di massa, dopo che Hitler è stato il profeta della razza e la Germania ne ha fatto la politica ufficiale di un governo potente e dinamico volto allo sterminio. Neppure Shakespeare o Dostoevskij dopo Auschwitz avrebbero così tranquillamente disegnato dei caratteri di ebreucci, di usurai e mercanti infimi, abbandonandosi ai loro stereotipi». Similmente il francese Pierre-André Taguieff, direttore di ricerca al CNRS, rilevando (II) che per la contemporaneità «il razzismo è essenzialmente "pregiudizio", come si diceva nella tradizione cartesiana, o "ideologia", come si dirà nella tradizione marxista. L'antirazzismo dogmatico egemonico è il risultato di una fusione delle tradizioni cartesiana e marxista: è uno dei virgulti ideologici meglio riusciti, in quanto più efficace, del recente matrimonio tra il razionalismo critico prodotto dall'Illuminismo e il rivoluzionarismo scientista-demistificatore. Matrimonio ideologico-politico al quale ha spianato la strada, per effetto di una concatenazione di effetti contingenti come spesso accade nella storia, la vittoria degli Alleati sull'Asse. Attraverso le litanie dell'antirazzismo dominante, e che funziona come un'ideologia dominante, è la lotta contro il nazismo che torna in campo, ed è anche la vittoria sui barbari effetti del razzismo hitleriano che viene commemorata». E a riconferma – ancor ce fosse bisogno – i rieducati Rudolf Burger, docente di Filosofia a Vienna, e Wolfgang Müller Funk, sociologo: «Nozioni come stirpe e razza, dopo i crimini nazisti perpetrati nel loro nome, non sono più fruibili: in Europa l'area post-comunista è anche post-fascista e ciò interdice, a parte che per gli estremi "vecchi diritti", l'uso pubblico-politico di determinati termini come concetti». Ed ancora il sefardita Martin Bernal, docente di Scienze Politiche alla Cornell University, il fantasioso ideatore, con Black Athena, delle «radici afro-asiatiche della civiltà classica»: «A partire dagli anni Quaranta, sia il razzismo che l'antisemitismo hanno perduto la propria rispettabilità a causa delle politiche "razziali" e "antisemite" della Germania nazista» (perfetto: si pensi solo, a contrariis, alle conseguenze del disvelamento della Grande Menzogna e del crollo del Supremo Immaginario!). Nulla invero di originale, poiché a illustrarci il Ricatto si era alzata mezzo secolo fa, tra le rovine d'Europa, sempre la potenza etico-intellettuale di Bardèche: «"Non vogliamo più vedere cose simili", dice la coscienza dell'umanità. "Cose simili", come vedremo, neppure sa esattamente che siano. Nondimeno la voce dell'umanità è comodissima: è una potenza anonima che si risolve in un principio di impotenza. Non impone nulla, non pretende di imporre nulla. Se un movimento analogo al nazionalsocialismo venisse domani a ricostituirsi, sicuramente l'ONU non interverrà per domandarne la soppressione. Ma la "coscienza universale" approverà qualsiasi governo pronunciasse l'ostracismo contro un tale partito o, per comodità, contro un qualsiasi partito simile al nazionalsocialismo. Ogni risorgimento nazionale, ogni politica di forza o semplicemente di convenienza è colpita da sospetto [...] Niente è interdetto, ma siamo avvisati che un certo "orientamento" non è buono. Siamo invitati a coltivare dentro di noi certe simpatie e a decidere certi rifiuti definitivi [...] La condanna del partito nazionalsocialista va assai più lontano di quanto possa sembrare. Essa colpisce in realtà tutte le forme solide, tutte le forme geologiche della vita politica. Ogni nazione, ogni partito che abbiano il mito della patria, della tradizione, del lavoro, della razza sono sospetti. Chiunque reclami il diritto del primo occupante, e attesti cose evidenti come la signoria della città, offende una morale universale che nega il diritto dei popoli a redigere la propria legge. Non soltanto i tedeschi ma noi tutti veniamo così ad essere spogliati. Nessuno ha più diritto di sedersi nel proprio campicello e di dire: "Questa terra mi appartiene". Nessuno ha più il diritto nella città di levarsi e dire: "Noi siamo gli anziani, noi abbiamo costruito le case di questa città; colui il quale si rifiuta di obbedire alle leggi se ne vada". Ormai è scritto che un concilio di esseri impalpabili ha il po-tere di sapere ciò che avviene nelle nostre case e nelle città». «Ecco le conseguenze del regno delle nuvole. La più importante è la rinuncia da parte di tutte le nazioni, partecipanti o no ai trattati (della morale sono comunque partecipi), alla propria sovranità in favore della comunità internazionale. Questa idea è talmente diffusa come base del mondo futuro che tutti i giorni siamo in qualche modo invitati ad adeguarci ad essa [...] Non possiamo renderci conto in tutta la sua portata di questa abdicazione [...] Constateremo così che le nazioni non soltanto rinunciano al diritto di distinguere per proprio conto il tollerabile dall'intollerabile, ma in realtà cedono il diritto di distinguere il giusto dall'ingiusto. Lasciano ad altri il diritto di giudicare non soltanto se esse siano danneggiate, ma se vivono conformemente alla morale. Per tutto devono chiedere il permesso [...] Esiste ormai dopo il giudizio di Norimberga una religione dell'Umanità, e c'è anche un "cattolicesimo" dell'Uma-nità. Noi dobbiamo sottomissione alla Santa Chiesa Madre dell'umanità, che ha per bombardieri i missionari. La sentenza di Norimberga è la bolla Unigenitus. Ormai il conclave parla e gli scettri cadono. Entriamo nella storia del Sacro Impero. Questa nozione di uno stato uni-versale che governa le coscienze è dunque il coronamento dei princìpi fin qui soltanto enunciati. Senza questa conclusione, essi non avrebbero un senso completo: con essa tutto si illumina, la cupola dà all'edificio la sua forma».
Fonte: Gianantonio Valli, "Holocaustica religio - Psicosi ebraica, progetto mondialista", Pagine 132-149, ©2010
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Author(s): | Olodogma |
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Published: | 2012-11-07 |
First posted on CODOH: | March 16, 2017, 4:17 p.m. |
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