I complici di dio e la guerra dei sei giorni nella falsità della metanarrazione israelobbista
L'On. Manlio di Stefano, eletto a Montecitorio in rappresentanza dei 5 Stelle, è intervenuto in Aula il 21 maggio, affermando... “Il 5 giugno verrà inaugurata la Coppa UEFA di calcio under 21 in Israele. Ora il 5 giugno è una data particolare perché è la data in cui Israele attaccò e occupò la Cisgiordania, Gaza, le alture del Golan e parte del Sinai. Quindi rappresenta una giornata di conquista per Israele e probabilmente l’inizio della sofferenza per molte altre popolazioni. Gli israeliani in questo momento stanno praticando discriminazione e violenza anche in ambito sportivo perché si stanno distruggendo stadi, stanno facendo ostruzionismo agli eventi che prendono in considerazione il lato palestinese"...
"In questo intervento di Stefano inizia male e finisce peggio. Nella guerra dei Sei Giorni Israele si difese dai Paesi confinanti che, dall’Egitto all’Iraq, ammassarono le proprie truppe ai confini e dichiararono ufficialmente guerra allo Stato Ebraico chiudendo gli Stretti. Non fu, dunque, Israele ad attaccare ma fu Israele a difendersi riuscendo a salvare il proprio popolo dalle minacce di distruzione."... parole di tale perugia fabio (fonte:http://www.romaebraica.it/i-grillini-vadano-a-lezione-di-storia-a-iniziare-dallonorevole-troll-di-stefano/). ..."il 4 giugno fu presa la decisione di aprire le ostilità. Il mattino successivo, Israele lanciò l'Operazione Focus, un attacco aereo a sorpresa a larga scala, che sancì l'inizio della Guerra dei sei giorni"...
(http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_dei_sei_giorni)
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Vediamo l'analisi dei fatti e le opinioni di alcuni ebrei importanti
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Naturalmente i fatti sono altro dalla versione strappaconsensi della propaganda del ghetto ebraico di Palestina e hasbara, i suoi pappagalli sul globo. Da notare l'uso strumentale dell'immaginario olocaustico atto a creare terrore. Ringraziamo la disponibilità del Dr. Valli.
Gianantonio Valli
I COMPLICI DI DIO
Genesi del Mondialismo (1)
"Complici di dio", di Gianantonio Valli
(Pagg 470→474) ...Inciso – La falsità della Metanarrazione Seigiornica – «a seminal event for Israel, evento determinante per Israele» dice Nachman Ben-Yehuda quella guerra – vanamente affermata per un trentennio da ogni goy che non volesse auto-accecarsi, esplode nel maggio 1997 ad opera dell'israeliano Rami Tal e si completa nel 2007 con l'israeliana Idith Zertal, docente di Storia Contemporanea all'Università Ebraica di Gerusalemme. E tuttavia, già il 14 aprile 1971 il ministro per gli Insediamenti Mordecai Bentov aveva rivelato su al-Hamishmar che «l'intera storia» dell'imminente sterminio era stata «inventata di sana pianta ed esagerata dopo l'accaduto per giustificare l'annessione di nuovi territori arabi». Equivalenti le ammissioni di Menachem Begin, primo ministro: «Nel giugno 1967, avevamo la scelta. La concentrazione di soldati egiziani nel Sinai non prova che Nasser volesse attaccarci sul serio. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi decidemmo di attaccarlo» (New York Times, 21 agosto 1982), Yitzhak Rabin, capo di Stato Maggiore e poi primo ministro: «Non credo che Nasser volesse la guerra. Le due divisioni inviate nel Sinai il 14 maggio non erano sufficienti per sferrare un'offensiva contro Israele. Lui lo sapeva e noi lo sapevamo» (Le Monde, 28 febbraio 1968), Yigal Allon, ministro del Lavoro: «Begin ed io volevamo Gerusalemme» (Eitan Haber, Menachem Begin, the Legend and the Man, Delacorte Press, 1978), Mattitiahu Peled, generale: «Tutte quelle storie riguardo l'immane pericolo che correvamo a causa della piccolezza del nostro territorio, un argomento spiegato a guerra finita, non erano mai state considerate un nostro calcolo, prima del termine delle ostilità. Mentre procedevamo verso la piena mobilitazione delle nostre forze, nessun essere sano di mente avrebbe potuto credere che tutto quel dispiegamento di forze fosse necessario per difenderci contro la minaccia egiziana. Fingere che le forze egiziane ammassate al confine fossero in grado di minacciare l'esistenza di Israele non solo insulta l'intelligenza di qualsiasi persona in grado di analizzare questo tipo di situazione, ma è prima di tutto un insulto all'esercito israeliano» (Le Monde, 3 giugno 1972), Ezer Weizmann, capo delle operazioni e poi capo di Stato: «Non c'è mai stato il pericolo dello sterminio. Questa ipotesi non è mai stata presa in considerazione, in nessuno dei nostri incontri» (Haaretz, 29 marzo 1972), Yeshayahu Gavish, capo del Comando Sud: «Prima della guerra dei Sei Giorni non avevamo mai preso in considerazione l'ipotesi della distruzione di Israele» (Alfred Lilienthal, The Zionist Connection, Dodd, Mead & Co., 1978), Mordechai Hod, comandante in capo delle forze aeree: «In quegli ottanta minuti iniziali si sono svolti sedici anni di pianificazione. Noi vivevamo con il piano, dormivamo sul piano, mangiavamo il piano. L'abbiamo perfezionato costantemente» (ibidem), Haim Barlev, generale: «Alla vigilia della guerra dei Sei Giorni non eravamo affatto minacciati di genocidio, anzi, non abbiamo mai pensato a questa possibilità» (Ma'ariv, 4 aprile 1972), Chaim Herzog, generale e poi capo di Stato: «Non vi era alcun pericolo di annientamento. I Quartier Generali di Israele non hanno mai creduto a questa eventualità» (ibidem) e Meir Amit, generale, capo del Mossad nel 1967: «Ci sarà una guerra. Il nostro esercito è ora pienamente mobilitato. Ma non possiamo restare a lungo in questa condizione. Poiché abbiamo un esercito di civili, la nostra economia può risentirne. Dobbiamo prendere decisioni rapide [...] Se diamo noi il primo colpo, le nostre perdite saranno relativamente contenute» (vedi Dennis Eisenberg, Uri Dan, Eli Landau, The Mossad, New American Library, 1978). Tornando a Tal, il Nostro, giornalista di Yediot Aharonot "Ultime notizie", pubblica una serie di interviste fatte ventun anni prima ad uno dei massimi fondatori della «patria», l'Orbo Dayan. Ma lasciamo la parola a Lorenzo Cremonesi, gongolante per tanto inganno (compiuto anche a spese degli ingenui diasporici i quali, liricheggia Doris Bensimon, «provarono un'angoscia esistenziale scoprendo la fragilità del piccolo Stato»): «Ricordate le ragioni di Israele per la guerra con la Siria nel 1967? I cannoneggiamenti delle batterie siriane dalle alture del Golan sui kibbutz inermi in Galilea, la competizione per il controllo delle acque, le continue provocazioni del regime di Damasco contro il nuovo Stato ebraico. Ebbene, tutto falso, tutta propaganda architettata per legittimare agli occhi del mondo la conquista israeliana di migliori posizioni strategiche sul Golan e assicurare nuova terra agli agricoltori. E il "mostro" siriano? Una tigre di carta, parola di Moshe Dayan. È l'ennesima spallata ai miti fondatori di Israele, che arriva tra l'altro in occasione delle celebrazioni del quarantanovesimo anniversario della nascita dello Stato e a tre settimane dal trentennale della guerra dei Sei Giorni [...] "Guarda, si può dire che i siriani sono dei bastardi, che è giunto il momento di fargliela pagare cara. Ma non è così che si fa politica. Non attacchi il nemico perché è un bastardo, ma solo se ti minaccia davvero. E il quarto giorno della guerra del 1967 i siriani non ci minacciavano per nulla", afferma Moshe Dayan. Per molti israeliani è una doccia fredda senza precedenti. L'indebolimento della convinzione di essere un paese comunque alla mercé di un nemico pronto ad annientarlo. "Possibile che per tanti anni menzogne così gravi e vergognose abbiano imperato nella nostra democrazia senza che nessuno osasse avanzare seriamente un dubbio?", si chiedeva incredulo la settimana scorsa sullo Haaretz Amnon Dankner, noto editorialista e autore di un celebre libro sui modi di vivere e pensare nell'Israele anni Cinquanta». Finissima la strategia della provocazione, ancor oggi celata dai mass media mondiali, tutti sotto diretto o indiretto controllo ebraico (altro che definire i Sei Giorni «la guerra che nessuno ha voluto», come fece il sinistro Uri Avnery!): «"Sai come si svolse almeno l'80% degli scontri a fuoco prima della guerra del 1967? Noi mandavamo i nostri trattori a scavare nelle zone demilitarizzate sapendo in anticipo che i siriani avrebbero sparato. Se non lo facevano, allora ordinavamo di penetrare più a fondo. Sino a che loro finalmente sparavano e noi potevamo rispondere massicciamente con artiglieria e aviazione per poterci impadronire ogni volta di un pezzettino in più di terra. Era la prassi, lo feci io quando ero capo di Stato Maggiore, ma anche tutti i miei predecessori". Dayan rovescia senza pudore la cronaca ufficiale del quarto giorno di guerra: "Fu una delegazione di esponenti del kibbutz a chiederci di occupare il Golan, volevano più terra per le loro coltivazioni"» (il che non toglie a Fiamma Nirenstein di continuare a stravolgere, propalando che, come nel 1948 e nel 1956 – «mentre il 14 maggio 1948 Israele danzava e cantava all'annuncio dello Stato secondo i confini approvati dall'ONU, Siria, Egitto, Libano, Giordania e Iraq lo attaccavano [...] ad appena otto anni dalla prima sconfitta, Nasser salta di nuovo addosso all'intruso» – anche nel 1967 «Israele fu attaccato dall'Egitto, dalla Siria e dagli altri tre Paesi al solito coinvolti nella guerra»). Di più ampio respiro il commento di Jacques Sironneau: «La conquista dell'altopiano del Golan è stata dettata non solo da considerazioni di ordine strategico (controllo della linea spartiacque sia per assicurare la protezione degli insediamenti israeliani situati a valle che per "dominare dall'alto la città di Damasco"), ma anche dalla volontà di controllare la principale fonte idrica vitale per Israele. Infatti un terzo dell'acqua consumata in Israele proviene dal Golan. Altro obiettivo primario è stata la falda acquifera della Giudea-Samaria, che ha un'importanza eccezionale in una zona arida la cui area di ricarico idrico è situata nel sottosuolo dei Territori Occupati ma scorre verso la parte nordorientale e occidentale del territorio israeliano. Essa è sempre sfruttata mediante pozzi con sistemi di pompaggio per grandi profondità. L'operazione "Pace in Galilea", condotta nel Libano meridionale nel 1982, permise finalmente a Israele di completare la sua opera e accrescere così il suo heartland idrico, assicurandosi il controllo dei tre corsi d'acqua che alimentano il lago di Tiberiade: il Dan, il Banias e lo stesso Alto Giordano. Grazie a ciò Israele ha anche accesso al Litani (Nahr-alQamsmiyeh), il fiume principale del Libano (portata annua stimata: 930 hm3), che potrebbe, per ragioni geologiche ancora sconosciute, avere un ruolo importante nell'alimentazione delle sorgenti del Giordano, benché situato su un diverso bacino montano [...] Sapendo che i due terzi dell'acqua che Israele consuma provengono dall'esterno delle frontiere precedenti al 1967, si comprende molto meglio l'incessante ricerca del controllo di una zona che presenta una reale unità idrologica». Inoltre, in parallelo a tale meditata strategia per uno spazio vitale quanto più organicamente inteso, ecco le incessanti punture di spillo della tattica quotidiana: «La politica di Israele nei Territori Occupati della Cisgiordania è stata quella di porre restrizioni all'utenza palestinese nello stesso momento in cui favoriva i propri coloni. L'ordinanza militare n.158 del 30 ottobre 1967 dispone infatti, all'art. 4(a), che "è proibito a chiunque fare o possedere impianti idraulici senza aver preventivamente ottenuto un'autorizzazione del comando militare". Un'altra ordinanza militare (la n.92/7 del giugno 1967) prevedeva già una serie impressionante di restrizioni rivolte essenzialmente ai palestinesi: divieto di scavare nuovi pozzi senza preventiva autorizzazione delle autorità militari (dal 1967 sono state concesse solo 34 autorizzazioni, tutte per scopi domestici, con l'esclusione di finalità agricole o industriali); fissazione delle quote di prelevamento e posa in opera di meccanismi di controllo dell'uso dell'acqua da parte dei palestinesi (il superamento delle quote è severamente punito con multe); espropriazione dei pozzi e delle sorgenti appartenenti a palestinesi "assenti"; proibizione agli agricoltori palestinesi di irrigare dopo le ore 16 (come veniva fatto secondo la tradizione). Per di più, la fatturazione dell'acqua nei territori occupati era identica a quella stabilita in Israele, senza tener conto della differenza di tenore di vita tra le due comunità. Infine, i palestinesi sono stati esclusi dalle sovvenzioni concesse agli irrigatori isreliani, sicché alcuni agricoltori palestinesi pagano l'acqua destinata all'irrigazione allo stesso prezzo pagato dagli israeliani per l'acqua potabile. Alcuni ritengono che tali pratiche discriminatorie non avessero altro scopo che costringere i palestinesi ad abbandonare quei territori. Contemporaneamente Israele ha condotto una politica di insediamento di "colonie di popolamento" [espressamente vietata dal diritto internazionale!] in particolare in Cisgiordania e nel Golan, cioè nelle zone più ricche di risorse idriche, sovvenzionando, soprattutto per mezzo dell'Organizzazione Sionista Mondiale, l'acqua utilizzata (il prezzo di vendita è fissato tra le 15 e le 23 agorot al m3 per i coloni ebrei, a seconda che sia per uso agricolo o domestico, e in 70 agorot per i palestinesi, quale che ne sia l'uso)». Aggiunge David Hirst: «All'inizio del 1967, la militanza congenita d'Israele stava spingendo verso una simile decisione [di scatenare contro l'Egitto una guerra per il Sinai].
In un certo senso, aveva bisogno della guerra. Stava attraversando la crisi economica più grave della sua esistenza; la disoccupazione era al 10%; il tasso di crescita era crollato; le sovvenzioni dalla Diaspora si stavano estingendo; e, cosa peggiore di tutte, l'emigrazione iniziava a superare l'immigrazione... un dato che ovviamente indicava, più di ogni altro, che la crisi economica era una crisi del sionismo stesso. A cosa ciò poteva preludere l'aveva pronosticato nel 1962 il generale Burns, un soldato i cui acuti giudizi andavano ben oltre le arti belliche: "I leader d'Israele hanno l'abitudine di attribuire le difficoltà economiche al boicottaggio di tutti i rapporti economici e commerciali intrattenuti dai paesi arabi e alla pressione che questi esercitano su altri paesi perché limitino gli scambi con Isaraele. In tali circostanze mi appare come una grande tentazione trovare una qualche scusa per fare la guerra e spezzare così il blocco e il boicottaggio... imponendo la pace alle condizioni di Israele". Riteneva che se Israele avesse mai dovuto avvertire l'esigenza di espandersi oltre i confini di allora, "le forze armate israeliane, sicure della propria capacità di sconfiggere ciascuno e tutti i paesi arabi che circondano Israele facilmente e rapidamente, intraprenderebbero tale compito con alacrità" [...] Tutto ciò che serviva per scatenare la macchina da guerra israeliana, erano le "circostanze favorevoli", che si presentarono il 23 maggio. Fu alle quattro del mattino di quel giorno che il capo di stato maggiore israeliano, il generale Yitzhak Rabin, svegliò il primo ministro Levi Eshkol per dirgli che il Presidente Nasser aveva deciso di imporre nuovamente il blocco di Aqaba. Poche ore dopo il gabinetto si riunì in seduta di emergenza.
Agli occhi d'Israele, Nasser aveva, di fatto, dichiarato guerra.
La sfida era effettivamente intollerabile. E non perché Israele rischiasse lo strangolamento economico, in quanto la chiusura dello Stretto di Tiran a tutte le navi israeliane e a navi di altre nazioni dirette a Eilat con materiale strategico avrebbe avuto uno scarso impatto economico immediato. Soltanto il 5% degli scambi di Israele con l'estero passava per Eilat; il petrolio proveniente dall'Iran era il principale materiale strategico, ma Israele poteva facilmente riceverlo attraverso Haifa. Un eventuale danno arrecato dalla chiusura dello stretto sarebbe stato compensato dall'offerta fatta pervenire dal Presidente Johnson – volta a fermare la mano di Israele – di preservare la sua vitalità economica. Le implicazioni a lungo termine erano certamente gravi, perché era attraverso Eilat che Israele intendeva sfruttare mercati nuovi o in espansione in Africa e in Asia. Ma la cosa davvero intollerabile era un'altra. Per la prima volta gli arabi capovolgevano la situazione a danno d'Israele. Per la prima volta erano loro ad amministrare il fatto compiuto (sebbene la precisa portata e rigidità del blocco siano controverse; ciò che i leader egiziani dicevano in pubblico era ben diverso da ciò che facevano in privato; il feldmaresciallo Abdul Hakim Amer pare avesse dato istruzioni ai soldati di non interferire con nessuna imbarcazione israeliana o navi militari o imbarcazioni scortate da navi militari) [...] La reintroduzione del blocco costituì però al tempo stesso l'opportunità perfetta. Il fatto compiuto egiziano, benché arbitrario, non era illegale. Dopo il 1956 gli egiziani avevano continuato a insistere che lo Stretto rientrasse nelle acque territoriali egiziane. Il preteso diritto israeliano di passaggio attraverso quelle acque territoreiali era, in effetti, alquanto dubbio, perché basato sul possesso di un sottile tratto di costa, ottenuto a sua volta, per ammissione dello stesso Israele, con "una di quelle violazioni calcolate i cui rischi politici dovevamo soppesare attentamente". Era accaduto nel 1949, durante le fasi finali della "Guerra d'Indipendenza", quando, violando un cessate il fuoco sponsorizzato dall'ONU, una pattuglia israeliana si spinse a sud fino al borgo e alla stazione di polizia araba di Um Rashrash, espellendone gli occupanti e fondando al suo posto il porto di Eilat». In ogni caso, «c'erano alcuni, i generali, che sapevano che la situazione reale era esattamente il contrario di ciò che sembrava, che David non soltanto equivaleva a Golia, ma lo surclassava senza speranza. Sapevano che, qualunque cosa i politici potessero dire e far credere alla gente, la sopravvivenza d'Israele non era mai stata in gioco, che se anche Nasser avesse inteso davvero fare la guerra, non aveva alcuna chance di vincerla» (di «artificioso allarme esistenziale alla vigilia della Guerra dei sei giorni utilizzato per predisporle un clima internazionale favorevole» scrive anche Ariel Toaff II (Toaff A. Ebraismo virtuale, Rizzoli , 2008 ) Tra i più recenti svelatori della psicosi su cui si è fondato, e si fonda, il comune giudizio sull'«eroica» guerra «di sopravvivenza» si annovera Tom Segev, in Cremonesi LXIV (La Guerra dei Sei Giorni divide gli storici israeliani, «CdS», 6 giugno 2007), con parole che danno conferma al professor Faurisson sull'incommensurabile danno creato alla psiche ebraica dall'Immaginario Olocaustico: «Sarebbe stato meglio non farla. La Guerra dei Sei Giorni per Israele è stata deleteria e le conseguenze le stiamo pagando tutt'ora. Quarant'anni fa, alla vigilia dell'attacco del 5 giugno 1967, sbagliammo nel lasciarci accecare dal panico della sopravvalutazione della minaccia araba. Poi, il settimo giorno, sbagliammo ancora nel farci travolgere dall'euforia della vittoria. I fatti hanno dimostrato che invece non c'era un bel niente da festeggiare: era l'inizio dell'occupazione delle terre arabe, con il suo bagaglio di immoralità, corruzione, ingiustizie che hanno creato le condizioni per la violenza, le tragedie, il terrorismo, persino le guerre degli anni seguenti [...] Avremmo dovuto far di tutto per evitarla. Però mi sembra che con gli egiziani il conflitto fosse inevitabile. Non tanto per causa loro, quanto per colpa nostra. La società israeliana di quel tempo era profondamente insicura, ansiosa, spaventata, ci si aspettava un secondo Olocausto [...] In verità nessuno di noi sa bene cosa volesse Nasser ordinando alle sue truppe di entrare nel Sinai. Intendeva davvero distruggere Israele? Non lo so. Posso però dire che i dirigenti israeliani erano certi dell'approssimarsi di un secondo Olocausto, paragonavano Nasser a Hitler. [Questa "sindrome dell'Olocausto" è ancora presente oggi?] Assolutamente sì, fa parte integrante della nostra identità nazionale. Basti vedere come in Israele si prendono sul serio e alla lettera le minacce che arrivano dall'Iran [del presidente Ahmadinejad]. In alcuni casi è pura strumentalizzazione politica, in altri si tratta di un sentimento genuino». Anche l'Amministrazione Johnson, notano Mearsheimer e Walt, «era convinta che Israele fosse militarmente superiore ai nemici e che sul pericolo di un attacco arabo stesse esagerando. Il generale Earle Wheeler, capo degli Stati Maggiori riuniti, ragguagliò Johnson in questi termini: "In base alle nostre stime più accurate, se ci dovesse essere una guerra gli israeliani la vincerebbero in cinque-sette giorni". E Johnson stesso disse al ministro degli Esteri israeliano Abba Eban che, se gli egiziani avessero attaccato, Israele li avrebbe "spazzati via". Ma i principali leader israeliani, sebbene in privato esprimessero lo stesso parere, continuarono a inviare a Washington dispacci allarmanti, in una campagna deliberatamente volta a catturare simpatie e ottenere sostegno». Se possibile ancora più chiara sulla «paranoia della distruzione» freddamente coltivata dai capi dell'Entità Ebraica è la Zertal: «Merita di essere qui analizzato come mai Israele abbia potuto percepirsi – al limite dell'isteria collettiva ancorché pilotata, e dell'inquietante distacco dalla realtà – in imminente pericolo di distruzione alla vigilia del giugno 1967, poiché è qualcosa che ha molto a che fare con la memoria politica collettiva sollecitata dal caso Eichmann e, da allora in poi, coltivata in Israele. L'eredità lasciata da Ben Gurion al suo popolo mediante il processo Eichmann fu duplice: permanenza dell'eterno odio nei confronti degli ebrei nonostante l'esistenza dello Stato di Israele; nemico di tipo nazista ammassato davanti alle porte della nazione-sotto-assedio». E l'onestà intellettuale della storica ebrea giunge al punto di chiedersi, concludendo per la seconda delle ipotesi, «se questa guerra sia stata la conseguenza inevitabile dei condizionamenti dell'ostilità arabo-israeliana oppure degli interessi economici, sociali e politici interni a Israele, che contribuirono a esacerbare le tensioni alla vigilia della guerra e ad esagerare la minaccia all'esistenza stessa di Israele allo scopo di giustificare l'azione preventiva». Avvertendo di non volere fornire una nuova versione degli eventi che condussero alla guerra, ma di analizzare la dimensione della Shoah sistematicamente introdotta nel discorso e nell'immaginario collettivo israeliani alla vigilia della guerra, la Zertal continua: «È generalmente riconosciuto che Israele ebbe un ruolo attivo nella maggior parte degli accadimenti che precedettero la guerra. Volendo risalire un poco all'indietro, la tensione tra Israele e Siria sulla questione della distribuzione delle acque del Giordano s'era acuita dal 1964. Nel settembre 1966, il capo di Stato Maggiore israeliano Yitzhak Rabin aveva lanciato un ammonimento alla Siria, dal quale si poteva evincere l'intenzione israeliana di rovesciare il regime baathista. Il 4 novembre 1966, Egitto e Siria firmarono un accordo di difesa reciproca. Nello stesso mese, dopo che una mina collocata dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) aveva causato la morte di tre soldati israeliani, l'esercito israeliano condusse un'azione di rappresaglia in pieno giorno nel villaggio palestinese di Samu, distruggendo abitazioni e infliggendo gravi perdite all'esercito giordano intervenuto. L'ampiezza dell'azione, che oltrepassò i limiti concordati, irritò il moderato primo ministro Levi Eshkol [che il primo giugno 1967, sfiduciato da un «putsch» militare, si sarebbe dimesso da ministro della Difesa per venire sostituito dall'aggressivo Moshe Dayan]. Il 7 aprile 1967, dopo alcune provocazioni da entrambe le parti, l'aviazione israeliana abbatté sei aerei siriani in volo nei cieli della Siria, di cui uno sulla capitale e, l'11 maggio, il capo di Stato Maggiore Rabin ribadì l'intento di Israele, in un futuro conflitto con la Siria, di occupare Damasco e rovesciare il regime baathista. Il giorno seguente, l'Unione Sovietica annunciò che Israele stava mobilitandosi per attaccare la Siria. In risposta, il presidente egiziano Giamal Abdel Nasser ordinò alle truppe egiziane di entrare nella zona smilitarizzata del Sinai. Il 17 maggio, Israele diede avvio alla mobilitazione delle forze di riserva e completò la mobilitazione generale il 20 maggio, creando non poche difficoltà economiche e sollecitando ulteriormente la rapida conclusione della crisi». «Il 21-22 maggio, il comandante in capo delle forze egiziane ordinò un paio di azioni che causarono il rapido deterioramento di una situazione già tesa. Operazioni che, secondo alcuni storici, non erano state approvate da Nasser e consistenti in voli di ricognizione sull'installazione nucleare israeliana di Dimona e sull'evacuazione delle United Nations Emergency Forces (UNEF), schierate sul confine tra Israele ed Egitto per fungere da cuscinetto [...] La crisi si acutizzò il 23 maggio con la chiusura, ordinata da Nasser, degli stretti di Tiran e il conseguente blocco del traffico marittimo diretto al porto israeliano di Eilat. Il posizionamento delle truppe egiziane nel deserto del Sinai e, come riconosciuto nelle memorie di due generali egiziani, la grande confusione, la mancanza di rifornimenti e l'assenza di piani di battaglia, provano, però, che il piano di Nasser era mantenere a lungo le forze egiziane nel Sinai in posizione difensiva, e che non prevedeva di passare all'attacco. D'altra parte, le mosse egiziane furono accompagnate dall'esagitata retorica e dalle minacce di totale distruzione di Israele trasmesse quotidianamente dai programmi in lingua ebraica della radio nazionale egiziana, captate in Israele e riportate dalla sua stampa. Non c'è dubbio che le minacce di Nasser abbiano avuto un'importanza cruciale nell'alimentare e intensificare le prepoccupazioni della popolazione israeliana. Questi discorsi aggressivi del presidente egiziano tornarono, inoltre, molto utili a chi, sul versante israeliano, faceva pressione, per motivi propri, affinché Israele sferrasse un attacco preventivo [...] In Israele, la relativa tranquillità che caratterizzò la prima settimana di crisi fu sostituita da una preoccupazione e una tensione crescenti anche nei circoli dirigenti e politici. Questi erano a conoscenza dei fatti e non avevano motivo di dubitare né della capacità difensiva di Israele, né di quella di vincere qualsiasi guerra [...] Va inoltre ricordato che, pochi giorni prima dello scoppio della guerra, Israele portò segretamente a termine la fabbricazione delle sue due prime bombe nucleari, pronte ad essere lanciate in caso di necessità». Quanto alla persistente centralità dell'Immaginario: «La guerra e la vittoria lampo di Israele – a ulteriore conferma che l'immagine della situazione che, poco prima, s'era fatta il popolo israeliano, e il mondo intero, era falsa – non dissiparono l'idea di una distruzione incombente. Al contrario, alimentarono e diffusero la leggenda di una Shoah miracolosamente evitata. Una specie di tautologia autoconfermantesi: più grande era stata la vittoria, tanto più grande era stata la catastrofe evitata. La vittoria, i territori conquistati, erano l'alternativa ai forni crematori». «La guerra dei Sei Giorni» – conclude l'ex presidente knessetiano Avraham Burg – ha posto le basi di una visione miracolosa, biblica, della terra come risarcimento e riparazione dopo lo sterminio degli ebrei d'Europa. Quel che Eichmann e Hitler avevano distrutto, l'esercito israeliano e il nostro spirito nazionale ce lo restituivano con una breve e stupefacente guerra». (...)
Nota:
1) Gianantonio Valli "I Complici di Dio. Genesi del Mondialismo" Ed. EFFEPI, via Balbi Piovera n.7, 16149 Genova Prima edizione gennaio 2009 – pag. 3034 nell'edizione cartacea Libro + CD per 4050 pagine, di cui 147 a stampa: €28,00 Per ordinarlo: tel. 338-9195220 , email: [email protected]
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Author(s): | Olodogma |
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Published: | 2013-05-29 |
First posted on CODOH: | Aug. 5, 2017, 3:20 p.m. |
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