La fabbrica dell’Emozione: Shlomo Venezia in “grande emozione” con Veltroni e Gattegna.
martedì 6 novembre 2007
La fabbrica dell’Emozione: Shlomo Venezia in “grande emozione” con Veltroni e Gattegna. La recensione di C. Mattogno a «Sonderkommando» con Appendici
È necessario dire due parole su come questo post è nato e soprattutto su come si svilupperà. La prima parte è una cronaca della presentazione del libro avvenuta in Roma nella sala della Protomoteca in Campidoglio ai primi di novembre del 2007. Ero presente ed ho raccolto le mie impressioni sulla manifestazione e sul pubblico presente. Ho poi comprato il libro e ne ho iniziato la lettura, che si era fermata dopo una cinquantina di pagine. Mi soffermavo su aspetti non tecnici, sufficienti tuttavia a farmi sobbalzare sotto il profilo morale, etico, storico, pedagogico. Avevo segnalato a Carlo Mattogno la presentazione del libro in Campidoglio e lo aveva invitato a venire in Roma. Lui si riservò invece una recensione critica del libro, risparmiandosi l’evento mondano. Così fu ed io dopo aver letto la recensione di Mattogno non ritenni di aver più nulla da dire su libro, per me macabro e per nulla emozionante. Adesso le cose cambiano. La vicenda del prof. Valvo, sospeso dall’insegnamento in un liceo romano, vede sullo sfondo il nome di Shlomo Venezia. Questo anziano signore ha accompagnato le scolaresche romane nell’ultima edizione del viaggio ad Auschwitz di circa 250 studenti più il seguito tutto a spese del dissestato bilancio comunale.
Per giunta, nel liceo artistico che ha sospeso un professore di storia che chiedeva ad un grafico le “prove” della Shoa si annuncia una sorta di “lectio magistralis” di Shomo Venezia. È troppo. Riprenderò la mia lettura del testo di Shlomo Venezia soffermandomi sugli aspetti non tecnici, fra cui la recezione del libro, dalla sua presentazione in poi, lasciando la parte tecnica (pianta di Auschwitz, fonti testuali ed archivistiche, incongruenze e prestiti, ecc) all’analisi di Carlo Mattogno, che priva di ogni credibilità sul valore testimoniale del libro in relazione a temi controversi, sui quali l’aspetto di gran lunga più grave non è il suo merito specifico ma il fatto che non può esservi una libera discussione e confutazione critica. In Germania, Francia e altri paesi vi è una incriminazione penale per chi non accetta testimonianze come quella di Shlomo Venezia. Vanno a farsi benedire almeno due secoli di civiltà giuridica improntati al principio della libertò di pensiero, di parola, di coscienza. Nel titolo del post ho voluto dare evidenza all’espressione “grande emozione” che ricorre come un cliché in differenti contesti, quasi come una formula promozionale e propagandistica di un prodotto che in questo caso è la formazione industriale di un pregiudizio.
Sommario: Parte I. Antonio Caracciolo: Shlomo Venezia in “grande emozione” fra Veltroni e Gattegna. - Appendice 1ª: Rassegna stampa commentata. – Parte II. Carlo Mattogno: «La verità sulle camere a gas»? Considerazioni storiche sulla «testimonianza unica» di Shlomo Venezia. - Appendice 1ª: I “nuovi” documenti su Auschwitz di Bild.de. Una bufala gigantesa. – Parte III. Carlo Mattogno: L’«Irritante questione» delle camere a gas ovvero da Cappuccetto Rosso ad… Auschwitz. Risposta a Valentina Pisanty.
Slomo Venezia in “grande emozione” fra Veltroni e Gattegna. Cronaca della manifestazione capitolina e riflessioni in margine al libro ed al suo successo
Ho ritardato di un giorno la mia partenza per fruire di una grande occasione di conoscenza, cioè «La verità sulle camere a gas», che sarebbe stata offerta oggi alle 18 nella Sala della Protomoteca al Campidoglio, presente il sindaco Walter Veltroni
ed il capo degli ebrei italiani Renzo Gattegna nonché tutta la comunità ebraica romana che abita proprio a quattro passo nel Ghetto adiacente. Tra il pubblico ho riconosciuto Pacifici mentre batteva le sue cinquine. Forse il senso più vero della manifestazione è stato dato da una persona del pubblico accanto a me, che mi ero piazzato in quarta fila, cioè la prima fila di sedie non riservate. Questa persona diceva ad un’altra che era stata una “grande emozione” ed io mi sono subito associato, confermandogli che anche io ritenevo fosse stata una “grande emozione”. Ma niente di più. E per giunta una “grande emozione” solo per chi era andato lì con l’intento di emozionarsi, ascoltando un martire vivente, tal Shlomo Venezia che ha avuto certamente la grande disgrazia di essere stato in Auschwitz, dove avrebbe fatto parte del “Sonderkommando”, cioè di quei gruppi di prigionieri che dovevano occuparsi dei cadaveri di altri prigionieri, tirati fuori – si suppone – dalle camere a gas ancora fumanti.
Non ero e non sono prevenuto nei confronti della “verità”, quale che essa sia. Avrei voluto finalmente sentirla questa verità e per tutto il tempo sono stato con le orecchie tese. Non ho però sentito altro che discorsi volti a suscitare “emozione”.
Veltroni è riuscito ad essere banale per ognuno dei cinque “livelli” di conoscenza da lui epistemologicamente individuati. Ma da quel furbastro che è a lui interessano più che altro i voti degli ebrei romani: non è da lui che si può certo attingere la Verità. Non saprei dire se la lobby romana abbia lo stesso potere e la stessa influenza della Israel lobby statunitense. Quel che è certo è che Veltroni ha stabilito un contatto organico con questa comunità a tutto discapito degli altri cittadini che neppure si accorgono di essere defraudati nelle loro libertà e nel loro diritto ad una memoria storica non adulterata. Sul libro non è stato detto nulla che da un punto di vista scientifico incoraggi a leggerlo. Anzi, sotto questo riguardo suona sospetta l’ammissione che a scriverlo siano stati in “tanti”. Forse Shlomo Venezia lo ha solo firmato. Naturalmente, acquisterò e leggerò il libro, ma temo che sarà una perdita di tempo [vedi ora la recensione di Mattogno, che già si era occupato una prima del personaggio], almeno per chi va alla ricerca di una “verità” e non semplicemente di una “grande emozione”.
A provare questa “grande emozione” ogni anno il sindaco Veltroni – credo con i soldi dei contribuenti – porta 300 studenti a visitare Auschwitz. Ne traggono certamente grande edificazione morale e gioia dello spirito altamente utile per la loro formazione.
Si parla sempre più spesso nella letteratura scientifica di una religio holocaustica. In effetti, questa sera al Campidoglio sembrava di trovarsi alla celebrazione di una cerimonia religiosa, dove si sono pronunciate condanne per i non credenti, additati alla pubblica esecrazione negli storici revisionisti e negazionisti. È stato forse questo il solo momento di lucidità da parte degli oratori, avendo loro ben compreso da quale parte possono venire le critiche dissacranti. Veltroni ha pure associato il cosiddetto negazionismo – termine che solo loro usano, ma non i diretti interessati per definire se stessi – alla “barbarie”. Deve temersi che il nostro Veltroni, appena succeduto a Prodi, regalerà a Shlomo una bella legge liberticida come quella già vigente in altri paesi. Basterà contraddire il martire vivente Shlomo per trovarsi in galera. Dove stia la barbarie, se nel “negazionismo” o nella galera inflitta a chi scrive qualche libro senza imprimatur gattegnano, resta un punto di vista.
Saranno gli storici a valutare la “testimonianza” di Shlomo Venezia, ma a me è parso che negli stessi discorsi degli oratori sia stata sempre presente e forse voluta un’ambiguità di fondo. Nessuna distinzione è stata fatta fra la realtà della discriminazione e della persecuzione degli ebrei, che nessuna “nega”, e la specifica realtà dello “sterminio” che è cosa storicamente distinta ed è ciò su cui propriamente dibattono gli storici revisionisti, per nulla “negazionisti” sulla realtà dei campi di prigionia.
Ho già detto che a mio avviso il “negazionismo” è una pura invenzione di quanti hanno inteso coniare una formula a scopo di mera diffamazione, denigrazione, delazione. La “grande emozione” è ciò che impedisce ad arte di tenere distinti i due aspetti. Ma è anche vero che il nostro tempo di “grandi emozioni” ne può distribuire quante se ne vogliono e di ogni genere. Ognuno si sceglie le sue “grandi emozioni”. Ognuno ha diritto alle sue “grandi emozioni”. I guai incominciano quando si pretende d'imporre ad altri le proprie “grandi emozioni”. Ed è esattamente ciò che si è tentato di fare in Campidoglio con il concorso del sindaco Veltroni, che scalda i suoi muscoli ed i suoi motori per le prossime campagne elettorali.
* * *
Ho comprato il libro. Avendolo comprato, tocca leggerlo, con pazienza e pena infinita. Il libro è preceduto da una prevedibile ed immancabile Prefazione di Walter Veltroni, che per la sua carriera politica fa molto affidamento sull'elettorato ebraico.
Mi riescono chiari i passaggi che lo hanno portato a conferire la massima onorificenza comunale al Foxman, presidente di quella ADL che l’ebreo dissidente Chomsky ha definito un centro permanente di diffamazione. Ho già detto che per la mia quota infinitesimale di cittadino romano quell'onorificenza non ha la benché minima giustificazione, se non l'interesse politico dello stesso Veltroni. Ma veniamo al libro di Slomo Venezia, redatto con la collaborazione del centro ebraico di documentazione, secondo quanto ho potuto ascoltare nel corso della presentazione, dove si è parlato di una “collaborazione” che è già un'ammissione di non autenticità ed una manipolazione confessa. Dalla Prefazione di Veltroni si apprendere di «studenti che partecipano ai “Viaggi della memoria” organizzati dal Comune di Roma assieme alla Comunità ebraica nei campi di sterminio», la cui esistenza è posta in dubbio dal revisionismo storico, una corrente di pensiero che anche sulla storia della nostra gloriosa Resistenza incomincia a far vedere a quanti non vogliono restare con gli occhi bendati come la realtà storica sia fatta di luci e di ombre, dove spesso le tenebri con il loro carico di menzogna prevalgono sulla luce e sulla verità. Per Veltroni si tratta di un “libro bellissimo”: de gustibus ne disputandum est. Per me si annuncia già nelle sue prime pagine come un libro bruttissimo e macabro, che certamente come docente non farei rientrare in un programma educativo per quegli studenti (maggiorenni, liberi e vaccinati) che volessero seguire i miei corsi di filosofia, magari sui viali dell'università, a lezione accademica finita. Avverto ancora che se riuscirò a giungere nella lettura del libro fino alla sua ultima pagina il mio intento non sarà quello di verificare il libro sul piano strettamente storico – compito che lascio agli storici cui compete –, ma di analizzare i giudizi di valore e la filosofia che sempre dietro ogni scritto traspare, essendone o meno consapevole gli autori. Per il resto la profondità filosofica di Veltroni è tutta racchiusa in frasi come la seguente, che lasciano senza fiato e si sottraggono ad ogni possibilità di commento esegetico nella loro banale insignificanza: «La forza del ricordo è una forza benefica e allo stesso tempo disperata» (p. 6). Bah! Per me è troppo profondo!Fatto salvo il rispetto per l’anagrafe familiare di Slomo, che si legge in una dedica che francamente considerato il tema io avrei evitato, ma ormai viviamo in tempi di reality show, si legge nell’Avvertenza all'edizione italiana di una vasta collaborazione nella preparazione del testo. Ed è ciò che mi fa dubitare dell’autenticità di una testimonianza – di questo si tratta – così manipolata. All’origine vi sarebbe una lunga intervista a Béatrice Pasquier raccolta a Roma tra il 13 aprile e il 21 maggio 2006, vale a dire ad oltre 60 anni dagli eventi. Ho personale esperienza di come già dopo pochi anni i ricordi si appannino e non posso dubitare che la “forza del ricordo” sia stata in questo caso stimolata ed aiutata dai numerosi soggetti candidamente menzionati nell’Avvertenza e nel corso della Presentazione capitolina. Prevedo che le mie impressioni sul libro non piaceranno a quanti nella sala capitolino hanno vissuto la “grande emozione”. Io però il libro l’ho comprato – senza quello sconto che avrei potuto avere in una libreria che mi era stata indicata da una Signora – e lo commento ed interpreto come mi pare. È un mio diritto che ho pagato euro 17,50.
In esordio Shomo ci informa della sua genealogia, per la quale probabilmente sarà stato aiutato da Beatrice. Per i comuni mortali, ossia che non hanno titoli nobiliari e non dispongono di platee di famiglia, se tutto va bene ed i documenti parrocchiali non presentano lacune non è possibile risalire nella costruzione del proprio albero genealogico ad oltre il XVII secolo. Shlomo sa che la sua famiglia si trovava in Spagna già nel XV secolo. Beato lui che dispone di così accurati archivi! Il fatto è comunque estraneo all'interesse specifico del libro, che è la “verità sulle camere a gas”, secondo quanto era stato promesso nella locandina della Presentazione. Ed è a questa sola questione che è rivolta la mia lettura sequenziale del libro. Con tutto il dovuto rispetto per Shlomo rilevo che già il mondo attuale è popolato da sei miliardi di persone, senza contare le esistenze di quanti ci hanno preceduto dagli albori dell’umanità fino ad oggi. Non vedo perché l’esistenza di Shlomo posso essere oggetto di un particolare interesse se non per la promessa di verità che ci è stata fatta. Tralascio dunque nella mia lettura tutti i dati biografico-genealogici non pertinenti all’oggetto.
A pagina 19 si parla di “vero volto” e “vera natura” del fascismo, lasciando intendere un’assoluta negatività. Nella stessa pagina però Shlomo racconta di aver frequentato le scuole italiane di Salonicco, dove poteva godere “tutto gratuitamente” di vantaggi che né nelle scuole ebraiche né in altre scuole avrebbe mai goduto:
«Sui circa sessantamila ebrei della città, noi di origine italiana saremo stati, al massimo, trecento. Ed eravamo gli unici a mandare i figli alla scuola italiana. Rispetto agli altri, che andavano alla scuola ebraica, godevano di alcuni vantaggi: ricevevamo tutto gratuitamente, ci regalamo i libri, mangiavamo alla mensa, ci distribuivano dell’olio di fegato di merluzzo… Indossavamo delle uniformi molto belle, con disegni di aerei per i ragazzi e di rondini per le ragazze. A quei tempi i fascisti volevano dare alla prosperità italiana. Era solo propaganda all’estero, ma noi ne approfittavamo…» [il corsivo è nostro].
E noi vi è dubbio che le comunità ebraiche, ieri come oggi, sanno ben approfittare delle situazioni sotto qualsiasi regime: di Mussolini ieri, di Veltroni oggi. Esiste una bibliografia al riguardo che però non intendo dare per prevedibili reazioni. Era questa la verità promessa?
A pagina 22 sembra evidente un’inquinamento moderno nella memoria di Shlomo Venezia. Si legge infatti con riferimento alla Salonicco degli anni trenta:
«Nei cinema venivano proiettati dei film che favorivano l’antisemitismo in cui si raccontava che gli ebrei uccidevano i bambini cristiani e, con il loro sangue, preparavano il pane azzimo. Era il periodo più difficile, anche se non mi ricordo di degenerazioni violente. La difficoltà di essere ebrei veniva sentita invece quando cambiava il governo [quello greco?] e gli ebrei potevano essere più facilmente vittime di ingiustizie. Ma eravamo così distanti dalle faccende del mondo… Pochi di noi sapevano cosa stava succedendo in Germania e fino alla fine, del resto, nessuno avrebbe potuto immaginarlo…».
In compenso, oggi ottobre 2007, con l'aiuto del centro di documentazione ebraica in nostro Slomo può immaginarlo. Sembra evidente l'allusione al libro di Ariel Toaff sulle «Pasque di sangue», che dopo una forte reazione della comunità ebraica, è stato addirittura ritirato dal commercio su richiesta dello stesso autore. Se si tratta di un libro di memorie, è però una memoria fabbricata nell’ottobre 2007.
A pagina 27 delle sue Memorie Shlomo ci fa sapere che già in gioventù era un ladro ed uno speculatore, più o meno accorto:
«In un’altra occasione fui più fortunato. Trovai un forno dove riuscii a recuperare [sic] delle gallette che cominciai a vendere. Tutti volevano comperarmele e tornai al magazzino per prenderne altre; nel frattempo, però, qualcuno aveva sbarrato l’accesso. Tuttavia riuscii a scovare un’apertura da cui potevo passare: presi tutto quello che potevo e me ne tornai a casa, con le gallette e con i soldi».
Non saremo certo noi a fare gli ipermoralisti e vogliamo concedere tutte le attenuanti. A chi ruba spinto dalla fame non gli si può dare del ladro: gli si può concedere la discriminante dello stato di necessità. Ma perché dopo aver rubato la gallette, ripetutamente rubato, il nostro Shlomo pensò di vendere ciò che non gli apparteneva? Avrebbe potuto concederlo “gratuitamente” ad altri affamati in tempi di carestia. In genere, il carattere morale si forma in gioventù e si consolida negli anni maturi. In attesa della verità promessa come possiamo fidarci del nostro eroe?
Sarebbe questa la “grande emozione” trasmessa al pubblico capitolino Veltroni compreso? Sarebbero questi gli alti insegnamenti morali impartiti alle scolaresche precettate in sala e spediti annualmente ad Auschwitz in viaggio d’istruzione a spese del Comune? Quale apertura di credito possiamo aprirgli dopo che un altro ebreo, ben diverso da Shlomo Venezia, la cui padronanza della lingua italiana è già dubbia, ha scritto un libro dal titolo eloquente: “L’industria dell'Olocausto”? A distanza di oltre 60 anni il ladro sembrava vantarsi dei suoi furti tanto da scriverne o farsene scrivere in un libro e non è neppure sfiorato dal problema morale. Probabilmente, sarà una risorsa della superiore moralità ebraica.
(segue)
Appendice 1ª
RASSEGNA STAMPA COMMENTATA
Sommario: 1. E dove sta la «verità sulle camere a gas»? – 2. Walter, Shlomo e Marcello ad Auschwitz nel 2005. –
1. E dove sta la «verità sulle camere a gas»? – Il link immette in un sonoro dove si ascolta la voce di Shlomo Venezia. Nonostante le innumerevoli divulgazioni sull’«Olocausto» si continua a fare una grande confusione e mistificazione. Non ho motivo di dubitare che Shlomo Venezia sia stato nel lager di Auschwitz, se è lui stesso a dirlo. Che Auschwitz sia esistito in quanto campo di prigionia e di concentramento nessuno lo nega e qualcuno deve pur esserci stato. Ma il punto non è questo. Quando si afferma che in Auschwitz vi sia stato “sterminio” in senso tecnico-giuridico mediante camere a gas, dovrebbe essere lecito chiederne documentazione inconfutabile del fatto. Altro è dire che Auschwitz non fosse un luogo di villeggiatura, altro è dire che fosse un “campo di sterminio”. Lo stesso Venezia parla della sua presenza in Auschwitz in quanto “forza lavoro”. Se gli uomini racchiusi nei lager dovevano costituire una riserva di lavoro schiavistico da usare a fini bellici, la cosa riveste una suo certamente deprecabile significato. Se invece si intende che gli uomini ivi racchiusi erano semplicemente destinati alla morte, ad essere uccisi, sorgono interrogativi inquietanti. Non si giustifica in nessun modo che venga proibita la ricerca o le opinioni di quanti ritengono di voler e poter criticare le versioni ufficiali. Shlomo Venezia ha prodotto in collaborazione con “tecnici” un libro che avrebbe dovuto dire la parola fine ad ogni duscussione e mettere per sempre a tacere i cosiddetti “negazionisti”, orribile parola con la quale si intende diffamare, denigrare, consegnare al boia persone che non hanno altra colpa che quella di non credere, per esempio, ad uno Shlomo Venezia. Il sonoro non apporto nessun contributo. Per il libro che è qui sulla mia scrivania dicasi lo stesso.Torna al Sommario.
2. Walter, Shlomo e Marcello ad Auschwitz nel 2005. – Le grandi effusioni che io ho potuto vedere nella sala capitolina nel novembre del 2007 esprimono un’amicizia fra Walter Veltroni, Shomo Venezia e Marcello Pezzetti di più antica data, perlomeno in occasione dell’ormai rituali viaggio in Auschwitz, a spese del contribuente, dove ogni anno a far data da Rutelli vengono portati 250 studenti romani, accompagnati da docenti ed ospiti vari. Ci permettiamo di osservare che avremmo giudicato meglio spesi quei soldi per mettere in sicurezza gli edifici scolastici romani oppure se si deve tagliari sugli sprechi nella pubblica istruzione, questo sarebbe certamente il caso, essendo a nostro avviso il viaggio perfino diseducativo. Il link immette in un articolo del 13 ottobre 2005 a firma Arela Piattelli dal titolo «Mai più quest’ultima fermata», apparso su “il Giornale”. Ma ahimé di “fermate” in Auschwitz credo ve ne saranno altre ancora, nel senso che anche con Alemanno continua la tradizione dei viaggi di istruzione. Anche questo articolo contiene l’abituale confusione fra “detenzione” e “sterminio”. Tutta la discussione storica che vede criminalizzati i cosiddetti negazionisti verte sulla documentazione dello “sterminio” in senso proprio, avvenuto mediante “camere a gas”. Non mi soffermo sul contenuto dell’articolo che mi pare contenga notevoli inesattezze, mentre invece la mia attenzione è su un cognome: quello delle sorelle Tatiana e Andra Bucci. Mi chiedo se hanno qualcosa a che fare con il giornalista Carlo Alberto Bucci il cui articolo «La Shoah? Non esiste» – Prof. negazionista» al liceo, apparso su la Repubblica del 16 novemre 2008 ha dato il via alla messa alla gogna del professore in questione, fino ad una repentina “sospensione” dall’insegnamento. Mi chiedo per quali vie quella che avrebbe potuto essere una discussione animata fra colleghi in un consiglio di classe di un modesto liceo sia finita su un giornale importante come “la Repubblica”. Cercherò di scoprirlo. Ma per adesso avanzo una congettura. Non sarà stato come già successo in Torino per un altro docente di liceo? In quel la figlia di una giornalista de “la Stampa” riferì alla madre di ciò che un docente aveva osato dire e si iniziò una squallida storia che portò persino ad una visita psichiatrica del docente! Spero di poter verificare presto questa mia congettura, fondata o meno che sia. Resta in ogni caso da sapere e capire come la faccenda sia finita sui giornali. È un dato essenziale per capire la meccanica lobbistica. La stucchevole motivazione didattica e pedagogica che di si dà di questi viaggi è che i ragazzi – in genere disponibili a qualsiasi viaggio – devono (acriticamente) apprendere e ricordare affinché quello che è successo non si ripeta più. Vediamo invece che non solo quello che è successo continua a ripetersi, ed in forme a nostro avviso anche più gravi, ma che di episodi paragonabili di pulizia etnica e simili viene sempre più incolpata da Onu e Ong proprio Israele, che dalla Shoah ha tratto e trae il massimo vantaggio economico e politico. Non io lo dico, ma una vasta letteratura e numerose organizzazioni, ad incominciare dall’Onu e dal presidente della Assemblea Miguel d’Escoto accusa apertamente Israele nelle sedute del 24 e 25 novembre 2008 di apartheid e di violazione dei diritti umani. Se è così, e riteniamo che lo sia, dispiace vedere come dei ragazzi che non guardano molto a quali viaggi si offrano loro vengano così irresponsabilmente ed acriticamente indottrinati.
Appendice 2ª
DOCUMENTAZIONE PERVENUTA E ARTICOLI CORRELATI
1. Chi è Slomo Venezia. – Il link immette in una pagina del sito “Thule Toscana” che offre una serie di rapide notazioni su Shomo Venezia.
2. Si segnala in particolare la recensione critica già disponibile in pdf ad opera di Carlo Mattogno, in pratica un contro-libro demolitore, che ben dimostra come Shlomo Venezia non solo non aggiunge nulla a ciò che già si sapeva, ma utilizza malamente le fonti da cui ha attinto, in pratica scrive un “romanzo”. I vari Pezzetti che lo hanno coadiuvato nell’impresa hanno dimostrato la loro incompetenza o scarsa maestria nel maneggiare un materiale peraltro assai macabro. Questa nota era stata da me scritta prima della pubblicazione della Parte Seconda di questo post, che si distingue per un diverso editing rispetto al pdf. Sono inoltre aggiunte illustrazioni che non potevano essere contenute nel pdf, sempre disponibile per chi preferisce questa forma di lettura.
Antonio Caracciolo
PARTE SECONDA
Carlo Mattogno
«La verità sulle camere a gas»?
Considerazioni storiche sulla «testimonianza unica» di Shlomo Venezia
Sommario: 1. Un testimone dell’ultima ora. – 2. Il titolo del libro. – 3. Le ragioni del silenzio. – 4. La deportazione ad Auschwitz. – 5. Il campo di quarantena BIIa. – 6. Il primo giorno nel “Sonderkommando”. – 7. Il “Bunker 2”. – 8. Il primo giorno di lavoro la “Bunker” secondo i compagni di sventura di Venezia. – 9. La “fosse di cremazione” nell’area del “Bunker 2”. – 10. Il reupero di grasso umano nelle “fosse di cremazione”. – 11. La camera a gas del Crematorio III. – 12. Il trasporto dei cadaveri ai forni del crematorio III. – 13. Forni crematori e cremazione. – 14. I camini fiammeggianti. – 15. La rivolta del “Sonderkommando”. – 16. La salvezza. – 17. Epilogo. – 18. Conclusione. – APPENDICE: 19. I “nuovi" documenti su Auschwitz di Bild.de. Una bufala gigantesca.
1.
Un testimone dell’ultima ora
Shlomo Venezia,
sedicente ex detenuto del cosiddetto “Sonderkommando” di Birkenau, ha deciso di “parlare” solo nel 1992. Di questa testimonianza mi ero già occupato nel 2002, in un articolo intitolato “Un altro testimone dell’ultima ora: Shlomo Venezia” (1). Le fonti all’epoca disponibili erano scarne. Venezia aveva acquisito una certa notorietà nel 1995, grazie a una sua intervista a cura di Fabio Iacomini intitolata “La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando [sic]” (2); sei anni dopo apparve una sua “Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria” (3). Nel gennaio 2002, Venezia concesse un’intervista a Stefano Lorenzetto (4), la quale, nell’ottobre del 2002, fu riproposta con qualche lieve modifica, sul settimanale “Gente”, col titolo “Io, ebreo, cremavo gli ebrei” (5).
Nell’articolo summenzionato rilevavo:
«Shlomo Venezia, sedicente membro del cosiddetto “Sonderkommando” dei crematori di Birkenau, come Elisa Springer, ha taciuto per quasi cinquant’anni, ma, a differenza di questa testimone, non ha (ancora) scritto il suo “memoriale”» (6) .
Come previsto, Venezia ha finalmente colmato la lacuna nel 2007, affidando le sue memorie a un libro: “Sonderkommando Auschwitz. La verità sulle camere a gas. Una testimonianza unica” (7), che esaminerò dal punto di vista storico anche alla luce delle sue precedenti dichiarazioni.
Come ho rilevato più volte, l’attribuzione del termine “Sonderkommando” al personale dei crematori di Auschwitz-Birkenau non ha alcun fondamento storico.
Nessun documento giustifica quest’uso terminologico. Nei documenti tedeschi il personale dei crematori viene chiamato Krematoriumspersonal o viene indicato con il relativo numero di commando, ad es. «206-B Heizer Krematorium I. u. II. 207-B Heizer Krematorium III. u. IV. (206-B Fuochisti crematorio I e II. 207-B fuochisti crematorio III e IV)». Ad Auschwitz esistettero almeno undici “Sonderkommandos” diversi che non avenano nulla a che vedere con i crematori (8). Nel 2004 Carlo Saletti ha scritto:
«Il termine Sonderkommando, usato per indicare la squadra addetta alla manutenzione e al funzionamento dei crematori, compare assai raramente nei documenti ufficiali del Lager, dove si utilizza piuttosto la denominazione Arbeitskommando [squadra di lavoro] seguita dalla specificazione Heizer Krematorium [fochisti del crematorio]. Esso, invece, è di uso comune presso il personale nazista in servizio nel Lager e presso gli internati di Auschwitz» (9) .
L’ultima affermazione è vera soltanto in relazione alle testimonianze successive alla fine della seconda guerra mondiale, quando appunto il termine in questione si impose ufficialmente e divenne di uso comune, esattamente come il termine “Bunker” (10).
Questa osservazione non è ispirata al mio studio summenzionato, ma è tratta dall'Opus Magnum del Museo di Auschwitz curata da W. Długoborski e F. Piper (11). L’unico caso ivi menzionato di presenza del termine “Sonderkommando” in un documento – il “Dienstplan für Dienstag” (piano di servizio per martedì) del 18 agosto 1944, menziona sì il termine, ma nulla dimostra che esso si riferisca al personale dei crematori (12). Pertanto il termine “Sonderkommando”, come sinonimo di personale dei crematori, non compare «assai raramente nei documenti ufficiali del Lager»: non vi compare mai.
Prima di esaminare le dichiarazioni di Venezia, è bene soffermarsi sulle ragioni che lo hanno indotto a tacere «fino al 1992, 47 anni dopo la Liberazione»! (13) Al riguardo egli ha spiegato:
«Per tutti questi anni non abbiamo parlato, neppure col mio amico, sebbene lui sapesse che il padre lavorava dove stavo io, ed è stato ucciso. Non avevamo il coraggio di tornare su questi argomenti. Ma ad un certo punto, di fronte a certi fatti, abbiamo deciso che era necessario. È stato qualche anno fa, quando a Roma hanno segnato le stelle di Davide su alcuni negozi, sono comparse sui muri scritte come “juden raus”, “ebrei ai forni”, e si sono cominciati a vedere i naziskin. Per qualcuno possono essere ragazzate, cose di poco conto, ma per noi che le abbiamo vissute, vedere di nuovo insorgere queste cose è inaccettabile. È stata la spinta per incominciare…» (14).
Nel libro, Venezia ha scritto:
«Ho iniziato a raccontare quello che avevo visto e vissuto a Birkenau
molto tempo dopo, non perché non ne volessi parlare, ma per il fatto che le persone non volevano ascoltare, non volevano crederci. Quando uscii dall’ospedale, mi ritrovai con un ebreo e cominciai a parlare. A un tratto mi resi conto che, invece di guardarmi, guardava dietro di me qualcuno che gli faceva dei segni. Mi girai e vidi uno dei suoi amici che gli diceva con i gesti che ero completamente matto. Da quel momento in poi non ho voluto più raccontare. Per me parlarne era una sofferenza e quando mi trovavo di fronte a persone che non mi credevano mi dicevo che era inutile. Solo nel 1992, quarantasette anni dopo la mia liberazione, ho ricominciato a parlarne. Il problema dell’antisemitismo riprendeva a manifestarsi in Italia e sui muri si vedevano sempre le croci uncinate... Nel dicembre 1992 sono tornato per la prima volta ad Auschwitz. [...]. Oggi, quando sto bene, sento il bisogno di testimoniare, ma è difficile. Sono una persona molto precisa, che ama le cose chiare e ben fatte. Quando vado a parlare in una scuola e il professore non ha preparato abbastanza i suoi allievi, la cosa mi ferisce profondamente. Nell’insieme, comunque, testimoniare nelle scuole mi procura molte soddisfazioni» (15).
In un’altra intervista, dopo aver parlato delle scritte antisemite sui muri di Roma, dichiarò:
«Allora sentii che era mio dovere raccontare l’Olocausto come l’ho visto con i miei occhi» (16) .
Queste motivazioni non sono convincenti. Esse non spiegano anzitutto perché neppure i parenti stretti di Venezia, il fratello Maurice e il cugino Dario, suoi compagni di sventura nel “Sonderkommando”, abbiano taciuto come lui. Ma, soprattutto, esse appaiono futili di fronte al “dovere di testimoniare”, che dovrebbe essere giudiziario e storico, oltre che etico. Venezia infatti, inspiegabilmente, non ha fatto nessuna dichiarazione ufficiale, non ha reso alcuna deposizione giurata, non ha partecipato ad alcun processo contro i suoi persecutori: non al processo Eichmann
di Gerusalemme (aprile 1961-maggio 1962), non al processo Auschwitz di Francoforte (dicembre 1963-agosto 1965), non al processo Auschwitz di Vienna contro F. Ertl e W. Dejaco (gennaio-marzo 1972); egli non ha contribuito alla condanna dei suoi carcerieri, né ha illuminato gli storici sul presunto processo di sterminio ad Auschwitz. Perché? Soltanto perché qualche conoscente lo aveva preso per matto?
L’altro cugino di Venezia, Yakob Gabbai, invece parlò. All’inizio degli anni Novanta concesse una lunga intervista allo storico israeliano Gideon Greif, il quale la pubblicò nel 1995 (17). Questi intervistò altri tre sedicenti compagni di sventura di Venezia, che lo nominarono esplicitamente: Josef Sackar, immatricolato ad Auschwitz col numero 182739 (18), Shaul Chasan, 182527 (19) e Léon Cohen, 182492 (20), a sua volta menzionato esplicitamente da Venezia (21). Il raffronto tra queste testimonianze e quella di Venezia, come si vedrà, è molto istruttivo.
4.
La deportazione ad Auschwitz
Venezia, nato a Salonicco nel 1923, fu arrestato ad Atene il 25 marzo 1944 e successivamente deportato a Birkenau, dove giunse l’11 aprile. Cosa curiosa, nel suo “Libro della memoria”, Liliana Picciotto Fargion
elenca, tra gli Ebrei italiani deportati, tre persone con cognome Venezia nate a Salonicco, ma non Shlomo (22), sebbene fosse cittadino italiano (23) .
A Birkenau, il testimone fu immatricolato con il numero 182727. L’11 aprile 1944 giunse in effetti ad Auschwitz dalla Grecia un trasporto di 2.500 Ebrei di cui furono immatricolati 320 uomini (182440-182759) e 328 donne (76856-77183) (24) .
Nel libro egli menziona esattamente il numero dei detenuti immatricolati (25), che all’epoca non poteva conoscere. È dunque chiaro che questa informazione è tratta dal Kalendarium di Auschwitz. Il cugino di Venezia, Y. Gabbai, di cui egli parla ripetutamente, giunse ad Auschwitz con il medesimo trasporto e fu immatricolato col numero 182569 (26), ma, a suo dire, all’arrivo furono selezionati 700 uomini (27). Evidentemente non conosceva il Kalendarium di D. Czech. Venezia racconta come segue ciò che accadde all’arrivo al campo:
«Invece il gruppo in cui ci ritrovammo io, mio fratello e i miei cugini venne inviato a piedi fino a Auschwitz I» (28).
Ma il cugino Y. Gabbai descrisse lo stesso evento in tutt’altro modo:
«Dal trasporto furono scelti 700 uomini, tra di essi mio fratello ed io, che poi dovettero ancora percorre a piedi tre chilometri (29) verso Birkenau» (30) .
Inoltre a Venezia il numero 182727 fu tatuato il giorno stesso dell’arrivo (31) al cugino Y. Gabbai, invece, il numero precedente 182569 fu tatuato inspiegabilmente «dopo alcuni giorni» (32) .
In relazione al campo di Auschwitz, Venezia afferma:
«All’interno del campo, immediatamente sulla sinistra, si trovava il blocco 24: era il bordello dei soldati e di qualche privilegiato non ebreo» (33) .
Questo bordello era invece destinato esclusivamente ai detenuti. In un rapporto del Lagerarzt (medico del campo) del KL Auschwitz del 16 dicembre 1943 si legge al riguardo:
«In ottobre nel Block24 è stato istituito un bordello con 19 donne. Prima del loro impiego le donne sono state visitate per Wa. R. (34) e Go. (35). Queste visite vengono ripetute ad intervalli regolari. L’accesso al bordello è consentito ai detenuti ogni sera, dopo l’appello. Durante l’orario di visita [al bordello] devono essere sempre presenti un detenuto medico e un detenuto infermiere che eseguono le misure sanitarie ordinate. Alla sorveglianza provvedono un medico SS e un infermiere SS» [«Im Oktober wurde im Block 24 ein Bordell mit 19 Frauen errichtet. Vor ihrem Einsetzen wurden die Frauen auf Wa. R. und auf Go. untersucht. Diese Untersuchungen werden in regelmässigen Abständen wiederholt. Der Zutritt ins Bordell ist den Häftlingen allabendlich, nach dem Appell gestatten. Während der Besuchzeit ist immer ein Häftlingsarzt und Häftlingspfleger anwesend, die die angeordneten sanitären Massnahmen durchführen. Die Überwachung besorgt ein SS-Artz und ein S.D.G.»] (36).
5.
Il campo di quarantena BIIa
Il giorno dopo Venezia fu inviato nel campo BIIa di Birkenau, dove doveva restare in quarantena per quaranta giorni. Egli racconta che, qualche giorno dopo,
«ci fecero prendere un carro, come quelli che si utilizzavano per trasportare il fieno. Dovevamo trainarlo noi al posto dei cavalli. Raggiungemmo una baracca che si trovava alla fine della quarantena, la chiamavano Leichenkeller, la camera dei cadaveri. Quando aprimmo la porta un odore atroce ci prese alla gola: la puzza dei corpi in decomposizione. Non ero mai passato davanti a quella baracca, e solo allora appresi che serviva da deposito per i cadaveri dei detenuti morti durante la quarantena, prima che venissero portati al Crematorio per essere bruciati. Un gruppetto di prigionieri passava tutte le mattine nelle baracche per recuperare i corpi di quelli che erano morti durante la notte. I cadaveri potevano poi rimanere a marcire nel Leichenkeller quindici o venti giorni, e quelli sul fondo erano spesso in uno stato di decomposizione avanzato, a causa del caldo» (37) .
In realtà nel campo di quarantena BIIa non esisteva alcuna camera mortuaria. Delle 19 baracche che lo componevano, 14 servivano da alloggio per i detenuti, 3 contenevano lavatoi e latrine, una l’infermeria e una la cucina. Nell’aprile-maggio 1944, 12 baracche furono adibite a ospedale per i detenuti, nessuna a camera mortuaria (38).
La permanenza di cadaveri nelle camere mortuarie di Birkenau per «quindici o venti giorni» non ha alcuna base reale, il che rende ulteriormente insostenibile il racconto di Venezia. Il 4 agosto 1943 l’SS-Sturmbannführer Karl Bischoff,
capo della Zentralbauleitung, rispose all’SS-Hauptsturmführer Eduard Wirths, medico della guarnigione di Auschwitz, che aveva richiesto la costruzione di camere mortuarie in muratura:
«L’SS-Standartenführer dott. Mrugowski, nel corso del colloquio del 31 luglio, ha dichiarato che i cadaveri devono essere portati nelle camere mortuarie dei crematori due volte al giorno, e precisamente al mattino e alla sera. Perciò la costruzione separata di camere mortuarie nelle singole sottosezioni diventa superflua». [«SS-Standartenführer Mrugowski hat bei der Besprechung am 31.7 erklärt, daß die Leichen zweimal am Tage, und zwar morgens und abends in die Leichenkammern der Krematorien überführt werden sollen, wodurch sich die separate Erstellung von Leichenkammern in den einzelnen Unterabschnitten erübrigt»] (39) .
Il 25 maggio 1944 il dott. Wirths inviò una lettera al comandante del campo di Auschwitz in cui si dice:
«Nelle infermerie dei detenuti dei campi del KL Auschwitz II ogni giorno vi è naturalmente un certo numero di cadaveri, il cui trasporto ai crematori è invero regolamentato e avviene due volte al giorno, al mattino e alla sera». [«In den Häftlingsrevieren der Lager des KL Auschwitz II fallen naturgemäß täglich eine bestimmte Anzahl von Leichen an, deren Abtransport zu den Krematorien zwar eingeteilt ist und täglich 2 mal, morgens und abends, erfolgt»] (40) .
Il trasporto dei cadaveri ai crematori «al mattino e alla sera» spiega perché il “Sonderkommando” era suddiviso in due turni di lavoro, uno diurno e uno notturno, come affermò anche Venezia:
«Noi facevamo turni dalle 8 alle 20 oppure dalle 20 alle 8» (41); «lavoravamo in due turni, uno di giorno e uno di notte» (42).
Per quanto riguarda la denominazione della presunta baracca, Venezia confonde con quella della camera mortuaria seminterrata del crematorio II/III: “Leichenkeller” significa appunto “scantinato per i cadaveri”; tutte le altre camere mortuarie di Birkenau erano infatti al livello del suolo. Come vedremo, Venezia afferma di essere stato assegnato al cosiddetto “Sonderkommando” del crematorio III, ma, fatto alquanto curioso, non nomina mai il termine “Leichenkeller” proprio quando lo dovrebbe menzionare: il “Leichenkeller 1” era infatti la presunta camera a gas omicida.
In fatto di terminologia errata, Venezia, ripetendo ciò che aveva già detto nel 1995 (43), afferma che i detenuti, ad Auschwitz, venivano chiamati «pezzi» (Stücke) (44). Nessun documento noto attesta quest’uso linguistico. Per contro, in migliaia di documenti i detenuti sono chiamati, appunto, “detenuti” (Häftlinge); a volte sono indicati soltanto con il numero di matricola, a volte anche con il loro nome (45). Nessun altro testimone del “Sonderkommando” e nessuno dei compagni di sventura di Venezia conferma questa pretesa denominazione di «Stücke». Suo cugino Y. Gabai dichiarò: «Non c’erano nomi al campo, solo numeri» (46) .
Venezia continua la sua narrazione così:
«Alla fine della terza settimana di quarantena, si presentarono degli ufficiali tedeschi che solitamente non si facevano vedere qui, poiché il mantenimento dell’ordine era affidato ai Kapos. Gli ufficiali si fermarono davanti alla nostra baracca e ordinarono al Kapo di disporci in fila, come per l’appello. Ognuno di noi dovette dichiarare che mestiere faceva e sapevamo tutti che bisognava mentire. Quando arrivò il mio turno sostenni di essere barbiere, mentre Léon Cohen, un amico greco che era sempre con noi, disse di essere dentista, sebbene in realtà lavorasse in banca. Pensava che lo avrebbero messo in uno studio dentistico a fare le pulizie, almeno sarebbe stato al caldo. Io ero convinto invece che in questo modo avrei raggiunto i prigionieri che lavoravano nella Zentralsauna. Avevo visto che il lavoro non era troppo difficile e poi si stava al caldo. In realtà non accadde quello che immaginavamo. Il tedesco scelse ottanta persone, tra cui me, mio fratello e i miei cugini» (47).
Ma nell’intervista di Stefano Lorenzetto i prescelti erano 70 (48). Ecco il racconto di Y. Gabbai del medesimo episodio:
«Dopo venti giorni - dunque il 12 maggio 1944 - ci fu un’altra selezione, più rigorosa della prima: vennero due medici con due sottufficiali. Dovemmo sfilare nudi. Un medico tedesco ci visitò, senza dire una parola, e scelse i 300 più robusti e più sani» (49).
Al riguardo J. Sackar riferì:
«Da lì ci portarono nella quarantena: Abschnitt BIIa. Vi restammo tre settimane. [...]. Una sera, quando erano arrivati i primi trasporti dall'Ungheria, si effettuò di nuovo una selezione e furono presi 200-220 Greci del nostro trasporto e fummo portati in blocchi speciali, se non erro, n. 11 e 13» (50) .
I primi trasporti di Ebrei ungheresi arrivarono ad Auschwitz il 17 maggio 1944 (51). S. Chasan raccontò:
«Restammo due settimane nella “quarantena”. [...] I Tedeschi vennero semplicemente nella “quarantena” e presero 200 uomini robusti per il lavoro» (52). [Nell’immagine Chasan si vede frontalmente, il primo a sinistra]
Infine, L. Cohen dichiarò:
«Restammo un mese nella quarantena. Un giorno nel blocco giunsero un medico ebreo e uno tedesco per la “visita”. Poiché conoscevo il tedesco, i miei compagni mi incaricarono di tradurre per loro. Andai dai medici e dissi loro che non ci dovevano assegnare al Sonderkommando. Alcuni giorni dopo arrivò un giovane Tedesco, di circa trent’anni, che parlava francese. [...]. Allora mi disse che aveva bisogno di 200 uomini robusti per lavori di caricamento presso la ferrovia. [...]. L'uomo ritornò il mattino seguente e disse: “Tutti i Greci con me!”. Eravamo circa 150 persone» (53).
Dalla “Quarantäne-Liste” (Lista della quarantena) risulta che il 13 aprile 1944 furono accolti nel campo BIIa 320 Ebrei provenienti da Atene con i numeri di matricola 182440-182759 che furono alloggiati nel Block 12; la quarantena scadeva l’11 maggio, ma 30 detenuti furono trasferiti il 5 maggio (54), pertanto Venezia - che rimase solo tre settimane in quarantena - doveva far parte di questo gruppo, sebbene adduca la cifra di 70 o 80 detenuti.
In riferimento alla baracca del “Sonderkommando”, egli aggiunge:
«Comunque non ci rimasi molto; nel giro di una settimana fummo trasferiti nel dormitorio del Crematorio» (55).
Ciò sarebbe dunque avvenuto intorno alla metà di maggio del 1944. Ma secondo, Filip Müller,
un altro sedicente membro del “Sonderkommando”, ciò accadde «alla fine di giugno» (Ende Juni) (56) .
6.
Il primo giorno nel “Sonderkommando”
Venezia, con i 30 o 70 o 80 o 150 o 200-220 o 300 prescelti fu condotto nel campo BIId «verso due baracche che pur essendo dentro al campo erano isolate da tutte le altre con filo spinato» in cui si trovava il cosiddetto “Sonderkommando” (57).
«La mattina dopo – racconta il testimone – verso le sette, ci portarono al crematorio III, che era circondato da un reticolato di filo spinato con la corrente a seimila volts. Dietro al reticolato correva una palizzata alta tre metri. Da fuori non potevano [sic] vedere nulla di quello che accadeva dentro, si vedeva solo la cima dei camini. Appena entrati dentro il kapò, per non metterci subito a contatto con la realtà, ci disse di rimanere fuori nel cortile ad estirpare l’erba ed altri lavori del genere [sic]. Ad un certo punto notai che l’edificio aveva una finestra ad altezza d’uomo, e spinto dalla curiosità decisi di vedere che cosa succedeva in questo crematorio. Mi avvicinai a quella finestra e vidi una stanza piena di morti, così aggrovigliati che sul principio non riuscivo a capire, non come quelli che avevamo visto nella baracca (58), ma morti da poco, ancora tutti in carne. Non ci volevo credere» (59).
«La mattina dopo» è il 6 maggio 1944. All’epoca il crematorio III (al pari del crematorio II) non era circondato da alcuna «palizzata alta tre metri» che impedisse la vista dei rispettivi cortili, come risulta in particolare dalla fotografia n. 153 dell’Album di Auschwitz, scattata il 26 maggio 1944, che mostra la metà est e buona parte del cortile del crematorio III, ben visibile perché era circondato soltanto da una recinzione di filo spinato (60). Questa fotografia appare anche nel libro di Venezia, con una didascalia ingannatrice: «Gruppo di donne e bambini - ebrei ungheresi - in procinto di entrare nel crematorio II» (61).
[Cliccare sull’immagine qui sotto riportata dal libro, per ottenerne un notevole ingrandimento] Le fotografie dell’Album di Auschwitz scattate successivamente dimostrano infatti che questo gruppo di persone percorse la Hauptstrasse (strada principale) oltrepassando i crematori II e III e, attraverso la Ringstrasse (strada circolare) (62) si fermò nel boschetto nei pressi del laghetto situato a est del crematorio IV (63).
La storia della palizzata è tratta dal libro di F. Müller, che scrisse:
«In precedenza Moll qui [presso il Bunker] e nei cortili dei crematori IV e V aveva fatto innalzare una barriera visiva alta circa 3 metri di lunghi pali conficcati, bastoni e rami secchi, per impedire a coloro che si trovavano al di là di gettare sguardi indiscreti sui luoghi dello sterminio» (64).
Evidentemente Venezia non ha capito bene questo passo, perché attribuisce al crematorio II o III ciò che F. Müller riferiva al “Bunker” e ai crematori IV e V.
Stando nel cortile del crematorio, Venezia notò «che l’edificio aveva una finestra ad altezza d’uomo». Raccontata così, la storia è piuttosto ingenua, perché lungo tutto l’intero perimetro esterno del crematorio si trovavano la bellezza di 47 finestre ad altezza d’uomo (65). C’era solo l’imbarazzo della scelta. Nel libro, Venezia ritorna sull’episodio scrivendo:
«Il primo giorno al Crematorio rimanemmo nel cortile senza entrare nell’edificio. A quei tempi lo chiamavamo Crematorio I; non sapevamo ancora dell’esistenza del primo Crematorio di Auschwitz I. Tre scalini portavano all’interno ma, invece di farci entrare, il Kapo ci fece fare un giro intorno. Un uomo del Sonderkommando venne a dirci quello che dovevamo fare: togliere le erbacce e pulire un po’ il terreno. Non si trattava di cose molto utili; probabilmente i tedeschi volevano tenerci sotto osservazione prima di farci lavorare all’interno del Crematorio. Quando tornammo il giorno dopo ci fecero fare le stesse cose. Sebbene ce lo avessero vietato formalmente, spinto dalla curiosità mi avvicinai al fabbricato per guardare dalla finestra cosa accadeva all’interno. Arrivato abbastanza vicino da dare un’occhiata, rimasi paralizzato: al di là del vetro vidi corpi ammucchiati, gli uni sugli altri, cadaveri di persone ancora giovani. Tornai verso i miei compagni e raccontai loro cosa avevo visto. Andarono quindi a guardare pure loro, con discrezione, senza che il Kapo se ne accorgesse. Tornavano con il volto distrutto, increduli. Non osavano pensare a quello che poteva essere successo. Compresi solo più tardi che quei cadaveri erano il “surplus” di un convoglio precedente. Non erano stati bruciati prima dell’arrivo del nuovo convoglio, e li avevano messi lì per fare spazio nella camera a gas» (66).
Rilevo anzitutto che, in questa versione, la scena si svolge al crematorio II invece che al crematorio III. Venezia vi ha inoltre rinunciato alla storia insostenibile della «palizzata alta tre metri». Aggiungo che le finestre del crematorio erano doppie ed erano tutte protette da una inferriata, dettagli non trascurabili che non potevano sfuggire a un osservatore esterno.
Secondo un altro sedicente membro del “Sonderkommando”, Henryk Tauber,
al pianterreno del crematorio II il locale denominato “Waschraum und Aufbahrungsraum” (sala di lavaggio e di composizione delle salme), verso il quale si apriva il montacarichi, veniva usato nel marzo-aprile 1943 come «deposito dei corpi» (67).
Ma anche se si volesse estendere questa funzione al crematorio III e al maggio 1944, resterebbe comunque il caso straordinario che Venezia, tra le 22 finestre che si aprivano in quella facciata del crematorio, sarebbe andato a curiosare proprio alla coppia di finestre del locale in questione.
Per F. Müller questo locale era usato per le esecuzioni (68). Di tale presunto uso, però, Venezia non sa nulla: per lui le esecuzioni con colpo alla nuca venivano effettuate nella sala forni, vicino all’«angolo dell’ultimo forno» (69), né egli accenna all’impiego di un locale al pianterreno per depositarvi un “surplus” di cadaveri.
La storia del «“surplus” di un convoglio precedente» è del resto smentita dal Kalendarium di Auschwitz, secondo il quale l’ultima gasazione prima del 6 maggio 1944 fu eseguita il 2 maggio, ma le presunte 2.698 vittime (70), in base alla capacità di cremazione addotta da Venezia (71), sarebbero state cremate in meno di due giorni; d’altra parte, la prima gasazione successiva a quella data, sarebbe avvenuta il 13 maggio (72). Nel libro, «la mattina dopo» diventa «qualche giorno dopo il nostro arrivo» (73), ma ciò non modifica la conclusione che scaturisce dal suo racconto: Venezia nel crematorio II o III non poté vedere il gruppo di cadaveri di presunti gasati.
Il cugino di Venezia narrò l’evento in questo modo:
«All’inizio della settimana, il lunedì 15 maggio, il gruppo fu diviso. Gli uni andarono al crematorio II [= III], noi fummo portati al crematorio I [= II]. Nel nostro gruppo c’erano soprattutto Ebrei greci, tra i quali Michel Ardetti, Josef Baruch di Corfù, i fratelli Cohen, Shlomo e Maurice Venezia, io e mio fratello Dario Gabai, Leon Cohen, Marcel Nagari e Daniel ben Nachmias. Ci dissero che la prima notte non dovevamo ancora lavorare, solo osservare. Ricordo che verso le 17 e 30 arrivò un trasporto dall’Ungheria (74). I lavoratori anziani dissero che noi nuovi arrivati dovevamo guardare bene, giacché entro pochi minuti essi [i deportati] non sarebbero più stati vivi. Non ci credevamo. Dopo poco tempo ci ordinarono di seguire giù i lavoratori, per vedere che cosa accadeva lì. Questo era ormai il nostro lavoro, ci fu detto. Fuori c’era [scritto] “Docce”, in polacco, tedesco, russo e inglese.
[Domanda] Che cosa vide quando, per la prima volta, la porta della camera a gas si aprì davanti a Lei?
[Gabbai] Vidi cadaveri, uno sopra l’altro. C’erano circa 2.500 corpi» (75).
Per J. Sackar, S. Chasan e L. Cohen, invece, il primo giorno di lavoro i nuovi detenuti del “Sonderkommando” furono portati direttamente al “Bunker”, come vedremo nel paragrafo 8.
Nell’intervista pubblicata da “Il Giornale”, Venezia ha raccontato la sua prima giornata di lavoro nel cosiddetto “Sonderkommando” senza menzionare affatto l’aneddoto relativo al crematorio:
«L’indomani [il 6 maggio 1944] ci fecero attraversare un boschetto. Arrivammo davanti a una casupola di contadini. Guai a chi si muoveva o fiatava. Tutti fermi in un angolo ad aspettare. All’improvviso sentimmo delle voci in lontananza: erano intere famiglie, con bambini piccoli e nonni. Li costrinsero a denudarsi al freddo. Poi li fecero entrare nella casetta. Arrivò un furgone con le insegne della Croce Rossa: scese un Ss, con un attrezzo aprì uno sportellino e fece cadere all’interno una scatola di roba, circa due chili. Chiuse e se ne andò. Dieci minuti dopo fu aperta una porta dalla parte opposta all’ingresso. Il capo ci chiamò a tirar fuori le salme. Dovevamo buttarle dentro il fuoco in una specie di piscina a 15 metri di distanza» (76).
Questa narrazione si riferisce al cosiddetto “Bunker 2”, una casa contadina al di fuori del campo di Birkenau pretesamente trasformata in camera a gas omicida nel 1942. In realtà questa presunta installazione di sterminio, come ho dimostrato in uno studio specifico (77), non è mai esistita. Essa non appare mai in nessun documento tedesco né col nome “Bunker” né con qualunque altro nome, neppure “criptato”.
La Commissione di inchiesta sovietica, che svolse la sua attività ad Auschwitz nel febbraio-marzo 1945, ignorava completamente il termine “Bunker”: essa usò sempre l’espressione “camera a gas” (газовая камера, gazovaja kamera) n. 1 e 2. Il testimone per eccellenza, Szlama Dragon
nella sua prima deposizione resa davanti ad un giudice istruttore sovietico il 26 febbraio 1945, parlò parimenti di “gazokamera [газокамерa] n. 1 e 2” e dichiarò esplicitamente che questa era la denominazione ufficiale. Anche H. Tauber, nella sua deposizione del del 27 e 28 febbraio 1945, riferì soltanto di “camere a gas” (“газовые камеры”, gazovie kameri). Il termine “Bunker” apparve per la prima volta nella deposizione di Stanisław Jankowski (anch’egli sedicente membro del “Sonderkommando) del 16 aprile 1945 (78).
Venezia ignorava che, secondo la versione ufficiale, questo “Bunker” fu rimesso in funzione in occasione dell’arrivo degli Ebrei ungheresi ad Auschwitz (perché le “camere a gas” dei crematori non riuscivano a smaltire le vittime), dunque non prima del 17 maggio 1944. La stessa cosa vale per la presunta «piscina» di cremazione. D. Czech afferma infatti che Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, nel quadro dei preparativi per il presunto sterminio degli Ebrei ungheresi, ordinò di riattivare il “Bunker 2” in data 9 maggio 1944 (79). F. Müller scrive al riguardo che «all’inizio di maggio nell’area dei crematori apparve dapprima il comandante del campo Höss e alcuni giorni dopo l’Hauptscharführer Moll» (80), il quale ordinò di scavare «cinque fosse dietro il crematorio V». F. Müller aggiunge:
«Anche nell’area del Bunker V ogni giorno si recò un numero molto consistente di detenuti per scavarvi parimenti delle fosse» (81).
Il periodo è proprio quello del presunto invio di Venezia al “Bunker 2”: all’epoca, dunque, egli, eventualmente, avrebbe potuto assistere solo allo scavo di fosse, non già allo spettacolo di fosse ardenti. Inoltre, come ho rilevato sopra, allora non arrivò neppure un trasporto di Ebrei che potessero esservi gasati.
Venezia ignorava anche che il presunto “Bunker 2”, secondo Sz. Dragon, era suddiviso in quattro locali, e aveva 4 porte di entrata e 4 di uscita, nonché 5 aperture di introduzione dello Zyklon B. Per D. Paisikovic,
invece, esso aveva 3 locali (82), mentre in base al rilevamento topografico del Museo di Auschwitz del 29 luglio 1985, esso comprendeva 7 locali (83) .
D’altra parte, l’espressione «denudarsi al freddo» (84) non solo non conviene al periodo (6 maggio), ma è anche in contrasto con la versione ufficiale, secondo la quale presso il “Bunker 2” furono costruite tre baracche nelle quali le vittime si spogliavano.
Qui apro una parentesi. Lo storico Marcello Pezzetti, nello scritto “La Shoah, Auschwitz e il Sonderkommando” allegato al libro di Venezia, invece di segnalare questo errore, cerca di coprirlo asserendo:
«In questo periodo di massima capacità di messa a morte del campo, le autorità naziste misero di nuovo in funzione il Bunker 2 (senza baracche spogliatoio accanto e il cui interno venne diviso in due parti... » (85).
Ma il testimone F. Müller, che è certamente un po’ più importante di Venezia, al riguardo ha scritto che «gli spogliatoi in cui le vittime si dovevano togliere i vestiti prima della gasazione si trovavano in tre baracche di legno» (86). Anche Sz. Dragon ha confermato che, alla riattivazione del “Bunker 2”, «sono state costruite delle altre baracche» (87).
M. Pezzetti è smentito perfino dalla pianta di Birkenau riprodotta nel libro, in cui il “Bunker 2” (designato “M 2”) appare corredato di due baracche spogliatoio! [Cliccare sull’immagine per averne l’ingrandimento] (88)
Tornando alle dichiarazioni di Venezia, gli sportelli a tenuta di gas delle camere di disinfestazione (e delle presunte camere a gas omicide) non si aprivano «con un attrezzo», ma con un semplice chiavistello a farfalla. Il testimone confonde con i barattoli di Zyklon B, i quali, appunto, si aprivano con un attrezzo speciale, che si chiamava “Schlageisen”, “scalpello”.
Non è poi chiaro come Venezia abbia potuto stabilire che nella «casupola» fossero stati introdotti «circa due chili» di Zyklon B, perché questo era confezionato in barattoli di vario formato, da 100 a 1.500 grammi di acido cianidrico, che egli però non descrive mai.
Nel libro, Venezia racconta in modo più prolisso il medesimo aneddoto. Riporto i passi essenziali:
«Arrivammo davanti a una casetta che veniva chiamata, come ho saputo più tardi, Bunker 2 o “casa bianca” e proprio in quel momento il mormorio si fece più intenso.
Il Bunker 2 era una piccola fattoria con il tetto ricoperto di frasche. Ci ordinarono di metterci su un lato della casa, vicino alla strada che passava lì davanti, da dove non potevamo vedere niente, né a destra né a sinistra» (89).
Due pagine dopo, viene riprodotto un disegno del sedicente membro del “Sonderkommando” David Olère risalente al 1945, che mostra il “Bunker 2” (90). Vi appare una casa (il presunto “Bunker 2”) con una porta al centro della facciata, una finestrella al centro del fianco visibile e un tetto ricoperto apparentemente di frasche. [Clicca sull’immagine per ingrandirla. A.C.] In realtà, secondo la deposizione di Sz. Dragon del 10-11 maggio 1945 (91), il tetto era di paglia (92), cosa confermata il 10 agosto 1964 da D. Paisikovic (93).
Aggiungo che il disegno di Sz. Dragon del “Bunker 2” (94) è in aperto contrasto con quello di D. Olère, che presenta per di più parecchi elementi di fantasia (95), mentre quello di D. Paisikovic è in contrasto con entrambi (96). Perciò il particolare del «tetto ricoperto di frasche» è il frutto di un fraintendimento del disegno di D. Olère
Venezia dice poi che arrivarono 200-300 vittime: «Le persone vennero costrette a spogliarsi davanti alla porta». Nessuna menzione delle apposite baracche-spogliatoio neppure qui.
Nel seguito della narrazione scompare sia l’accenno all'SS che «con un attrezzo aprì uno sportellino», sia il riferimento ai «circa due chili» di Zyklon B.
Venezia aggiunge:
«Quanto a noi, ci ordinarono di andare dietro la casa da dove, all’arrivo, avevo notato provenire uno strano bagliore. Mentre ci avvicinavamo mi resi conto che si trattava della luce del fuoco che bruciava nelle fosse, a una ventina di metri di là» (97).
In precedenza egli aveva menzionato una sola fossa, «una specie di piscina», o «un fossato tipo piscina» (98): qui, invece, parla di «fosse», al plurale, senza curarsi di dire neppure quante erano. La cosa in effetti era piuttosto ardua, perché, al riguardo, i testimoni oculari si contraddicono a vicenda, asserendo che esse erano 1, 2 o 4, che erano lunghe 50 o 30 metri, larghe 10 o 6 metri e profonde 3 o 4 metri (99).
Venezia ignorava anche che, nel 1944, il “Bunker 2” (secondo altri testimoni) era stato ribattezzato “Bunker V” (F. Müller) o “Bunker 5” (D. Paisikovic), sicché Jean-Claude Pressac prese la salomonica decisione di denominarlo “Bunker 2/V” (100).
8.
Il primo giorno di lavoro al “Bunker”
secondo i compagni di sventura di Venezia
A questo riguardo, J. Sackar raccontò quanto segue sulla sua prima giornata nel “Sonderkommando”:
«Del primo giorno mi ricordo bene. Eravamo nel campo D [BIId] e una sera ci portarono dietro all’edificio dell'ultimo crematorio [hinter das letzte Krematoriumsgebäude], dove vidi le atrocità più orribili della mia vita. La sera era arrivato un piccolo trasporto. Noi non dovevamo lavorare; ci avevano portato là affinché ci abituassimo a guardare. C’era una fossa scavata, chiamata “Bunker”, per cremare i cadaveri. Dalle camere a gas i cadaveri venivano portati a questi “Bunker”, vi venivano buttati dentro e bruciati nel fuoco» (101).
L’«ultimo crematorio» era il crematorio V, perciò il testimone localizzava il “Bunker 2” nel cortile esterno di questo crematorio!
Alla domanda: «Può descrivere il “Bunker”?», il testimone rispose:
«Sì, era una grossa fossa, dove si portavano e si gettavano i cadaveri. Le fosse erano scavi profondi, giù, sul fondo, veniva accatastata la legna. Dalle camere a gas si portavano qui i cadaveri e si gettavano nelle fosse. Le fosse erano tutte fuori, all’aperto. C'erano alcune fosse, nelle quali bruciavano i cadaveri» (102).
Per J. Sackar dunque il “Bunker 2” non era una casa contadina trasformata in impianto di gasazione, bensì una «grossa fossa» nella quale si cremavano i cadaveri delle vittime assassinate nelle camere a gas del crematorio V!
Quest’idea olocausticamente strampalata appare anche nelle testimonianze dei suoi compagni di sventura.
S. Chasan, infatti, sempre in relazione alla prima giornata di lavoro, asserì:
«Camminammo e camminammo. Strada facendo chiedevamo: “Dove lavoreremo?”. La risposta era: “Nella fabbrica”. Finalmente giungemmo in un boschetto. Ci guardammo intorno nel boschetto e che vedemmo? Una piccola casa contadina, una capanna isolata. Ci avvicinammo, vi arrivammo e quando fu aperta la porta, vidi una cosa orribile. Dentro era tutto pieno di cadaveri di un trasporto, più di 1.000 cadaveri. L’intero locale, tutto pieno di cadaveri» (103).
Questa «casa contadina» aveva dunque una sola camera a gas con una sola porta. Come ho già rilevato, ciò è in contrasto con le testimonianze di Sz. Dragon
e D. Paisikovic, a loro volta contraddittorie.
Ma anche per S. Chasan il “Bunker” non era la «casa contadina», bensì una fossa:
«Dovevano tirare fuori i cadaveri. Lì c’era un bacino, una fossa profonda che era chiamata “Bunker”» (104).
Alla domanda dell’intervistatore: «Dove si trovava questo bacino?», il testimone ribadì:
«Veniva chiamato “Bunker”. Ora, quando sono ritornato ad Auschwitz, non ho trovato né la fossa né la casa. Doveva trovarsi dietro al crematorio IV [= V]» (105) .
Perciò anche S. Chasan localizzava il “Bunker 2” nel cortile del crematorio V.
Ed ecco infine il racconto di L. Cohen:
«I Tedeschi non ci portarono alle costruzioni degli impianti di cremazione, ma alle fosse di cremazione. Là vidi parecchi carrelli accanto alle fosse e molto vicino una costruzione con una piccola porta. Poi mi fu chiaro che vi si asfissiavano le persone con il gas. Aspettammo fuori circa 15 minuti, poi, per ordine dei Tedeschi, dovemmo aprire le porte. I cadaveri caddero fuori a mucchi e noi cominciammo a caricarli sui carrelli. Erano piccoli carrelli aperti come quelli delle miniere. Di gran lunga più piccoli dei vagoni ferroviari. I cadaveri furono portati alle fosse. Nelle fosse i cadaveri furono disposti così: uno strato di cadaveri di bambini e di donne (106), sopra uno strato di legna; poi uno strato di cadaveri di uomini, e così via, finché la fossa, profonda tre metri buoni, non era completamente piena. Indi i Tedeschi versavano della benzina nella fossa. La mescolanza di corpi morti e legna bruciava in modo fiammeggiante» (107).
Ricapitolando sommariamente, per Venezia i nuovi detenuti del “Sonderkommando” furono condotti prima al crematorio II oppure al crematorio III, dove videro dei cadaveri da una finestra, ma non fu consentito loro di entrare nella camera a gas; Y. Gabai afferma invece che il 15 maggio 1944 essi furono portati al crematorio II, dove nella camera a gas videro i cadaveri di 2.500 ebrei ungheresi di un trasporto che arrivò a Birkenau solo due giorni dopo. Il testimone non dice nulla del lavoro al “Bunker 2”. J. Sackar asserisce che i detenuti furono diretti nel cortile esterno del crematorio V, dove c’era una fossa che era chiamata “Bunker”. S. Chasan fa dichiarazioni simili. L. Cohen, invece, che non conosceva neppure la denominazione “Bunker”, definisce la presunta installazione di sterminio semplicemente «una costruzione». Egli introduce nella sua narrazione i «carrelli» per trasportare i cadaveri alle fosse, indubbiamente molto più comodi del sistema descritto da Venezia:
«Trasportare un cadavere in due su quel terreno fangoso dove i piedi affondavano non era facile, ma da soli era quasi impossibile... » (108).
S. Chasan, arrivato al “Bunker 2”, lo trovò già pieno di 1.000 cadaveri. L. Cohen, invece, dovette aspettare 15 minuti prima di vedere i cadaveri. Venezia, non si sa come, riuscì anche a vedere le vittime vive, che però non erano 1.000, ma 200-300:
«Curioso come sempre, mi avvicinai per capire cosa stesse succedendo e vidi intere famiglie che aspettavano davanti alla capanna: giovani, donne, bambini. Due, trecento persone in tutto» (109) .
Infine, secondo J. Sackar, i nuovi membri del “Sonderkommando” non lavorarono al “Bunker”, ma si limitarono a guardare, mentre per Venezia essi furono costretti a rimuovere i cadaveri dalla camera a gas e gettarli in fosse ardenti, per L. Cohen, invece, dovettero disporli a strati in una fossa vuota.
Concludo questa breve panoramica con un’altra testimonianza oculare, quella di Miklos Nyiszli,
sedicente medico del “Sonderkommando” nello stesso periodo in cui vi lavorava Venezia. Egli scrisse che il “Bunker 2”, da lui mai chiamato in questo modo, ma descritto come «una lunga costruzione decrepita dal tetto di stoppia», «una casa contadina», non era una installazione di gasazione, ma un semplice «spogliatoio» per le vittime ebree, che non morivano in una camera a gas, bensì con un colpo alla nuca sul ciglio di due enormi “fosse di cremazione” (110).
9.
Le “fosse di cremazione” nell'area del “Bunker 2”
L’esistenza di “fosse di cremazione” nella primavera-estate del 1944 nell’area del “Bunker 2” è uno dei temi ricorrenti della memorialistica su Auschwitz. L. Cohen - per restare ai nostri testimoni - ci informa che «la fossa» (die Grube) era profonda «tre metri buoni» (111) , mentre secondo S. Chasan «la fossa era molto profonda, credo circa quattro metri» (112).
Ma nessuna delle fotografie aeree scattate dall’aviazione americana e inglese nel 1944 mostra “fosse di cremazione” o fumo in quest’area (113) .
Per di più, all’epoca, la falda freatica dell’area di Birkenau si trovava a 1,2 metri dal livello del suolo (114), perciò la cremazione sarebbe avvenuta nell’acqua!
Un rapido accenno anche alle “fosse di cremazione” del cortile del crematorio V. A loro conferma, nel libro di Venezia sono riprodotte due fotografie. [clicca sulle foto per ingrandirle]
La prima mostra «uomini del Sonderkommando presso una delle fosse comuni del Crematorio V» (115). La didascalia è doppiamente errata. Dal punto di vista olocaustico, poiché nella fotografia appare del fumo, si dovrebbe parlare di “fossa di cremazione”, come si fa comunemente. La relativa nota del libro asserisce che «alla fine della primavera del 1944 cinque erano le fosse di cremazione a cielo aperto intorno al Crematorio V» (116), ma ciò è arbitrario e falso.
Arbitrario perché le testimonianze dei sedicenti ex membri del “Sonderkommando” sono contraddittorie: le presunte fosse erano 2 per S. Jankowski, 3 per C. S. Bendel, 3 per H. Tauber secondo la deposizione resa ai Sovietici, 5 secondo la deposizione da lui resa a J. Sehn e anche per Sz. Dragon e F. Müller (117). Ogni testimone, inoltre, attribuiva ad esse dimensioni e capacità contrastanti (118).
Falso perché in quest’area esistette un solo sito di cremazione con una superficie di circa 50 metri quadrati. Questo unico sito appare sia nella fotografia menzionata sopra, sia nella fotografia aerea di Birkenau scattata
dagli Inglesi il 23 agosto 1944, che è appunto la seconda fotografia
del libro sul tema delle “fosse di cremazione” (119). La colonna di fumo che si vede accanto al crematorio V proviene proprio da questo sito, come ho dimostrato in base a ingrandimenti delle fotografie disponibili (120).
Secondo F. Müller, le pretese cinque “fosse di cremazione” di quest’area dovevano misurare metri 40-50 x 8 x 2 di profondità (121), perciò la loro superficie complessiva avrebbe dovuto essere mediamente di 1.800 metri quadrati. Le fotografie aeree di Birkenau mostrano invece un solo sito di cremazione di circa 50 metri quadrati. Naturalmente, anche le “fosse” di F. Müller sarebbero state piene d'acqua almeno per il 60% della loro profondità.
10.
Il recupero del grasso umano nelle “fosse di cremazione”
Nell’intervista apparsa su “Il Giornale”, Venezia, incredibilmente, riferisce l’assurda storia del recupero del grasso umano nella «piscina»:
«Sì, ma la prima notte mi adibirono a questo crematorio all’aperto. Intorno c’era uno scolo in pendenza dove si raccoglieva l’olio che colava dalla pira. Dovevo raccattarlo e ributtarlo sui cadaveri per farli bruciare più in fretta. Lei non ha idea di che combustibile sia il grasso umano» (122).
E nel libro ripete:
«Le fosse erano in pendenza; il grasso umano prodotto dai corpi che bruciavano colava lungo il fondo fino a un angolo, dove era stata scavata una specie di conca per raccoglierlo. Quando il fuoco minacciava di spegnersi, gli uomini prendevano un po' di grasso dalla conca e lo versavano sui corpi per ravvivare la fiamma. Una cosa del genere l’ho vista solo qui, nelle fosse del Bunker 2» (123).
Questa storia, inventata nell’immediato dopoguerra, ha ricevuto la sua sanzione ufficiale da F. Müller,
che l’ha ricamata in modo molto minuzioso. Secondo lui, tuttavia, le presunte “fosse di cremazione” erano provviste di due canaletti larghi 25-30 cm che, dal centro della fossa, correvano in pendenza lungo l’asse centrale e sboccavano in due buche più profonde nelle quali si raccoglieva il grasso umano liquido, che veniva raccolto con un secchio e gettato sul rogo (124).
Come ho dimostrato in uno studio specifico (125), questa storiella è insensata già per il fatto che, mentre la temperatura di accensione degli idrocarburi leggeri che si formano dalla gasificazione dei cadaveri è di circa 600°C, la temperatura di accensione dei grassi animali è di 184°C, perciò in un tale impianto il grasso umano brucerebbe immediatamente. Anche perché la temperatura di accensione del legno stagionato è di 325-350°C. Inoltre, se – per qualcuno dei tanti miracoli di cui sono costellate le vite dei “sopravvissuti” del “Sonderkommando” – il grasso umano liquido avesse potuto colare attraverso le fiamme sul fondo della fossa, scorrere sulle braci ardenti e defluire nelle fosse di raccolta laterali, Venezia, insieme a F. Müller, avrebbe dovuto attingerlo sul ciglio di una “fossa di cremazione” in cui c’era un immenso rogo che bruciava ad una temperatura minima di 600°C!
11.
La camera a gas del crematorio III
All’inizio, a Fabio Iacomini, Venezia aveva raccontato di essere stato assegnato al crematorio III (126). A Stefano Lorenzetto, invece, disse: «Ero addetto al Krematorium 2, il più grande dei quattro (127) funzionanti a Birkenau» (128). Nel libro egli ritorna sulla prima versione:
«La tregua non durò a lungo: il giorno dopo dovemmo ricominciare a lavorare e io fui mandato con un gruppetto di una quindicina di persone al Crematorio III» (129).
Nelle piante di Birkenau e nella documentazione ufficiale – a cominciare dai rapporti esplicativi (Erläuterungsberichte) (130) e dai preventivi di costo (Kostenanschläge o Kostenvoranschläge) (131) del campo e dalla “Deliberazione di consegna” (Übergabeverhandlung) di queste installazioni (132), i crematori di Birkenau sono normalmente denominati II, III, IV e V; in pochi documenti appare la denominazione I, II, III e IV. Ma Venezia non ha mai accennato a questa duplice numerazione, che evidentemente gli era ignota, perciò non si può credere che, nelle sue testimonianze, egli abbia adottato l'una o l'altra a seconda delle circostanze, cosa che sarebbe comunque deplorevole.
Com’era fatta la camera a gas? Sorprendentemente, nel libro Venezia non la descrive affatto: non indica le sue dimensioni, la sua posizione nell’edificio, come vi si accedeva, come era allestita all’interno, se era divisa in due locali (come afferma H. Tauber) o se era un locale unico (come dichiara M. Nyiszli).
Qui egli ha anche perduto un’ottima occasione per chiarire definitivamente, coll’autorità della sua testimonianza oculare, uno dei punti più importanti e più controversi del presunto processo di sterminio nei crematori II e III: la struttura dei presunti dispositivi per introdurre lo Zyklon B nella camera a gas. Erano dei semplici tubi vuoti di lamiera a sezione quadrata con fori su ogni faccia, come dice M. Nyiszli? (133) Avevano al loro interno «una spirale» per distribuire uniformemente lo Zyklon B, coma afferma F. Müller? (134) Oppure non erano di lamiera, ma di rete metallica, e avevano una sezione quadrata di 70 cm di lato, come testimonia M. Kula (il sedicente costruttore dei congegni) (135), o di 35 cm, come sostiene J. Sackar (136), o di 25 cm, come dichiara K. Schultze? (137) E se erano di rete metallica, al loro interno avevano un corto «cono di diffusione» e di recupero dello Zyklon B che si inseriva nella parte alta del dispositivo, come asserisce Kula, o un «cestello» che si tirava su «con l'aiuto di un filo di ferro», come riferisce H. Tauber? (138) Oppure, come raccontò S. Chasan, si trattavava di tubi metallici rotondi, pieni di fori, che però non arrivavano fino a terra, ma avevano in basso uno spazio libero per recuperare i granuli di Zyklon B? (139) O, come narra J. Weiss, «erano colonne per i ventilatori, attraverso cui veniva immesso il gas»? (140) Oppure, secondo la descrizione di J. Erber, i dispositivi avevano insieme tutte queste caratteristiche: erano tubi di ferro (Eisenrohre) ma, nello stesso tempo, «erano circondati da una rete d’acciaio» e avevano al loro interno un «contenitore di lamiera»(Blechbehälter) che si poteva tirare su con una corda? (141)
Al riguardo Venezia non dice assolutamente nulla: dalla sua testimonianza oculare non si apprende come erano fatti i presunti dispositivi per introdurre lo Zyklon B, quanti erano, come erano dislocati, neppure se esistevano realmente! E a giudicare dal fatto che, a suo dire, lo Zyklon B veniva semplicemente «buttato a terra» nella camera a gas – come vedremo sotto – egli non sapeva nulla di tali dispositivi.
Per avere una magra descrizione della presunta camera a gas, bisogna ritornare indietro alla sua testimonianza del 1995: «Questa era una grande sala, sul soffitto c’era una doccia finta ogni metro» (142) , o alla testimonianza del gennaio 2001, non meno laconica:
«La gente così era convinta di andare a fare la doccia e, infatti, c’era una grande stanza con tante docce finte» (143).
Queste affermazioni richiedono un chiarimento.
La deliberazione di consegna (Übergabeverhandlung) del crematorio III all’amministrazione del campo datata 24 giugno 1943 assegna «14 Brausen» (docce) al Leichenkeller 1, la presunta camera a gas, omicida (144). Queste docce, a partire da Pressac, vengono considerate “finte”. La realtà è ben diversa. Esse erano l’attuazione di un progetto precedente ben documentato.
Il 16 maggio 1943, Bischoff inviò a Hans Kammler, Amtsgruppenschef C dell’SS-WVHA
un «Rapporto sulle misure adottate per l’attuazione del programma speciale ordinato nel KGL [campo per prigionieri di guerra] Auschwitz dall’SS-Brigadeführer e Generalmajor der Waffen-SS dott. ing. Kammler» (Bericht über die getroffenen Massnahmen für die Durchführung des durch SS-Brigadeführer und Generalmajor der Waffen-SS Dr. Ing. Kammler angeordneten Sonderprogrammes im KGL. Auschwitz) nel quale, al punto 6 si legge:
«Impianto di disinfestazione. Per la disinfestazione dei vestiti dei detenuti è previsto in ciascuna delle singole parti del campo del BAII (145) un impianto di disinfestazione Organizzazione Todt. Per poter eseguire una disinfestazione corporea ineccepibile per i detenuti, nei due bagni per i detenuti esistenti nel BAI vengono montate caldaie di riscaldamento e boiler affinché per l'impianto doccia esistente sia disponibile acqua calda. Inoltre si prevede di montare serpentini di riscaldamento nell'inceneritore dei rifiuti del crematorio III per ottenere tramite essi l’acqua [calda] per un impianto doccia da costruire nel seminterrato del crematorio III. Riguardo all’esecuzione della costruzione per quest’impianto si è discusso con la ditta Topf und Söhne di Erfurt».
[«Entwesungsanlage. Zur Entwesung der Häftlingskleider ist jeweils in den einzelnen Teillagern des BAII eine OT-Entwesungsanlage vorgesehen. Um eine einwandfreie Körperentlausung für die Häftlinge durchführen zu können, werden in den beiden bestehenden Häftlingsbädern im BAI Heizkessel und Boiler eingebaut, damit für die bestehende Brauseanlage warmes Wasser zur Verfügung steht. Weiters ist geplant, im Krematorium III in dem Müllverbrennungsofen Heizschlangen einzubauen, um durch diese das Wasser für eine im Keller des Krematoriums III zu errichtende Brauseanlage zu gewinnen. Bezüglich Durchführung der Konstruktion für diese Anlage wurde mit der Firma Topf & Söhne, Erfurt, verhandelt»] (146).
Le docce, dunque, erano vere (147).
Nel libro, Venezia si limita a dire:
«Dopo essersi svestite, le donne entravano nella camera a gas e aspettavano, pensando di trovarsi in una sala docce, coi rubinetti in alto[?]» (148).
Oltre alle presunte docce finte, in precedenza Venezia aveva menzionato soltanto la porta della presunta camera a gas:
«Allora chiudevano la porta, che era fatta come quella delle celle frigorifere, con un piccolo oblò per vedere dentro» (149).
«Infine chiudevano la porta, simile a quella dei frigoriferi dei macellai, una doppia porta con al centro uno spioncino per vedere dentro» (150).
Nel libro, Venezia ha aggiunto soltanto che la porta «all’interno era protetta da alcune sbarre in ferro per evitare che le vittime rompessero il vetro» (151), particolare che però è tratto da un disegno di D. Olère, sul quale ritornerò successivamente – che mostra appunto la porta aperta della camera a gas con lo spioncino protetto internamente da una griglia quadrata (152).
[Clicca sull’immagine per ingrandirla] Il disegno, a sua volta, si ispira liberamente alla porta a tenuta di gas con uno spioncino munito all'interno di una griglia emisferica di protezione che fu trovata nel 1945 nel Bauhof (magazzino dei materiali da costruzione) di Auschwitz, come appare nelle fotografie riportate da Pressac (153). Senza approfondire, mi limito a rilevare che la porta del Leichekeller 1 (presunta camera a gas) del crematorio III fu costruita senza griglia di protezione.
La lettera di Bischoff alle officine DAW (Deutsche Ausrüstungswerke) del 31 marzo 1943 fa riferimento ad un’ordinazione del 6 marzo concernente «una porta a gas (Gastür) (154) 100/192 per il Leichenkeller 1 del crematorio III, BW 30a» la quale doveva «essere costruita esattamente secondo il tipo e le dimensioni della porta del seminterrato (Kellertür) del crematorio II antistante, con spionicino di vetro da 8 mm con guarnizione di gomma e ferramenti (mit Guckloch aus doppelten 8 - mm - Glas mit Gummidichtung und Beschlag)» (155). Riguardo alla porta del crematorio II, nella sua deposizione del 24 maggio 1945 davanti al giudice istruttore J. Sehn, H. Tauber, che aveva visto questa porta nel Bauhof (156), dichiarò che la porta della presunta camera a gas aveva una finestrella che all’interno «era protetta da una griglia metallica in forma di mezza luna», ma poiché essa veniva regolarmente danneggiata dalle vittime, «lo spioncino è stato nascosto da una tavola o una placca di metallo» (157).
Venezia si dilungua invece nella descrizione del processo di gasazione e dell’aspetto delle vittime. Al riguardo egli afferma:
«Alla fine arrivava il tedesco con il gas. Prendeva due prigionieri del Sonderkommando per sollevare la botola dall’esterno, al di sopra della camera a gas, e introduceva lo Zyklon B. Il coperchio, in cemento, era molto pesante. Il tedesco non si sarebbe mai preso la briga di sollevarlo da solo; lo facevamo in due. Qualche volta io, qualche volta altri» (158).
Questa affermazione è in radicale contrasto con tutte quelle più accreditate. Ad esempio, il testimone F. Müller riferì che lo Zyklon B era versato da due «disinfettori» SS (159). Ancor più chiaramente il testimone M. Nyiszli, che Venezia menziona nel libro come «medico ebreo ungherese assistente di Mengele» (160), affermò:
«In questo preciso istante si sente il rombo di un’automobile. È una macchina di lusso, che reca l’insegna della Croce Rossa internazionale. Ne scendono un ufficiale ss e und S.D.G. Senitätsdienstgefreiter (sottufficiale del Servizio di Sanità) (161). Il sottufficiale porta quattro scatole di latta verde. Avanza sul prato dove, ogni trenta metri (162), dei piccoli camini di cemento spuntano dal suolo. Dopo essersi messa la maschera antigas, solleva il coperchio del comignolo, anch’esso di cemento. Apre una scatola e ne versa il contenuto, una materia granulosa violacea, nella bocca del camino» (163).
Ed ecco la relativa testimonianza di H. Tauber:
«[L’SS-Rottenführer] Scheimetz apriva i barattoli con l’aiuto di cesorie particolari e di un martello, poi versava il contenuto nella camera a gas e chiudeva l’apertura [dei piccoli camini] con un coperchio di cemento. Come ho già detto, c’erano quattro di questi piccoli camini. In ognuno di loro Scheimetz versava il contenuto di un barattolo più piccolo di Zyklon. Erano recipienti avvolti con un’etichetta gialla. Prima di aprirli, Scheimetz indossava una maschera antigas. Aveva la maschera addosso quando apriva i barattoli con il [sic] Zyklon e versava il contenuto nei piccoli camini della camera a gas. Oltre a Scheimetz, altre SS svolgevano questo compito, ma ho dimenticato i loro nomi» (164).
Ciò è in ulteriore contrasto con la seguente affermazione di Venezia:
«Alcuni sostengono che le SS portassero maschere antigas, ma io non ho mai visto tedeschi portarne, né per versare il gas né per aprire la porta» (165) .
Venezia ignora incredibilmente la storia dei piccoli camini esterni per l’introduzione dello Zyklon B nella camera a gas, in quanto parla di una semplice «botola» evidentemente installata sul soffitto del locale, che aveva un coperchio di cemento. Questo particolare proviene dalla deposizione di H. Tauber (166). E, menzionando «la botola», egli mostra di non sapere neppure che le presunte aperture per lo Zyklon B nel Leichenkeller 1 dei crematori II e III dovevano essere quattro.
Il riempimento della camera a gas da parte delle SS descritto da Venezia contiene un evidente controsenso:
«Gli uomini venivano invece mandati nella camera a gas alla fine, quando la sala era già piena. I tedeschi facevano entrare per ultimi una trentina di uomini robusti in modo tale che, incalzati dalle botte, massacrati come animali, non avevano altra scelta che spingere in avanti gli altri per entrare e sottrarsi ai colpi» (167).
Ma gli «uomini robusti», per definizione olocaustica, non venivano mandati alla camera a gas, bensì al lavoro.
Ed ecco la descrizione dei cadaveri nella camera a gas:
«Li trovavamo aggrappati gli uni agli altri, ognuno alla ricerca disperata di un po'’ d’aria. Il gas, buttato a terra, sviluppava degli acidi [sic] dal basso; tutti cercavano di raggiungere l’aria, anche se dovevano salire gli uni sugli altri fino a quando anche l’ultimo moriva» (168).
Questa scena è tratta, molto improvvidamente, dalla testimonianza di M. Nyiszli. Questi infatti ha scritto:
«I cadaveri non sono coricati un po’ dappertutto, in lungo e in largo, per la sala, ma pigiati in un ammasso alto fino al soffitto. La spiegazione è nel fatto che il gas inonda dapprima gli strati inferiori dell'aria e sale lentamente verso l'alto. È questo che obbliga i disgraziati a pestarsi, a montarsi l’uno sull'altro. Qualche metro più su, il gas li raggiungerà un po' più tardi» (169).
Il testimone aveva costruito questa scena fittizia sul presupposto che il gas impiegato a scopo omicida fosse non già acido cianidrico (il principio attivo dello Zyklon B), ma «cloro sotto forma granulata» (170), ed è noto che il cloro ha una densità maggiore di quella dell’aria (171), sicché se questo gas fosse stato immesso nella camera, avrebbe appunto inondato dapprima gli strati inferiori dell’aria e sarebbe salito lentamente verso l’alto. Ma, come ha rilevato lo storico Georges Wellers (172),
«i vapori dell’acido cianidrico sono più leggeri dell’aria, perciò salgono in alto nell’atmosfera» (173),
proprio il contrario di ciò che è stato asserito da M. Nyiszli. La scena da lui descritta e ripresa da Venezia è pertanto completamente inventata.
In questa non-descrizione della camera a gas, l’aspetto più incredibile, come ho rilevato sopra, è l’assenza di qualunque riferimento ai presunti congegni di rete metallica per l’introduzione dello Zyklon B. Ormai da anni i ricercatori revisionisti hanno dimostrato che questi presunti congegni sono un semplice espediente letterario senza alcuna base documentaria e materiale (174). Venezia, invece di contraddirli, almeno sul piano testimoniale, su questo punto fondamentale della storia delle gasazioni omicide nei crematori II e III di Birkenau, non sfiora neppure la questione!
Venezia non dice praticamente nulla neppure sul sistema di ventilazione del Leichenkeller 1. Tutto ciò che si riesce a sapere dalla sua testimonianza è che, dopo che era stata accesa la ventilazione, «per una ventina di minuti si udiva un intenso ronzio, come una macchina che aspirava l’aria» (175) e che «il ventilatore continuava a purificare l’aria» (176) (corsivo mio).
Ma l’impianto di ventilazione del Leichenkeller 1 constava di due ventilatori, uno premente che soffiava l’aria (Belüftung), l’altro aspirante che la evacuava (Entlüftung).
La cosa più sorprendente è comunque il fatto che, mentre la presunta camera a gas del crematorio III, per accedervi, richiedeva circa venti minuti di ventilazione meccanica, in quella del “Bunker 2”, che non era fornita di impianto di ventilazione, si poteva entrare subito dopo l’apertura della porta:
«Dieci minuti dopo fu aperta una porta dalla parte opposta all’ingresso. Il capo ci chiamò a tirar fuori le salme» (177).
Ancora più incredibilmente, Venezia non parla mai di maschere antigas, senza le quali i detenuti del “Sonderkommando” sarebbero rimasti a loro volta gasati: certamente nel “Bunker 2”, molto probabilmente nel crematorio III. F. Müller al riguardo ha scritto:
«Mentre i morti venivano portati fuori dalla camera a gas, i trasportatori di cadaveri dovevano indossare maschere antigas, perché i ventilatori non potevano aspirare completamente il gas. Soprattutto tra i morti si trovavano sempre resti del gas tossico che si liberava durante lo sgombero della camera a gas» (178).
Un’ultima osservazione. Venezia afferma:
«La svestizione durava un’ora, un’ora e mezzo, spesso anche due ore, dipendeva dalle persone: più anziani c’erano, più tempo ci voleva e i primi a entrare nella camera a gas potevano rimanervi in attesa per più di un’ora» (179).
Ed ecco la relativa dichiarazione di L. Cohen:
«[Domanda] Quanto restavano le persone nello spogliatoio?
[Cohen] Circa 20 minuti, talvolta una mezz’ora» (180).
12.
Il trasporto dei cadaveri ai forni del crematorio III
Venezia descrive così il trasporto dei cadaveri ai forni:
[Cliccare sull’immagine per ingrandirla] «Alla fin fine la cosa più semplice era usare un bastone e tirare il corpo da sotto la nuca. Si vede in un disegno di David Olère. Con tutte le persone anziane mandate a morire, non ci mancavano certo i bastoni» (181).
Il disegno in questione è riprodotto nella pagina seguente del libro. Esso mostra l’ingresso della presunta camera a gas, con la porta aperta (munita di spioncino protetto da una griglia quadrata, di cui ho già parlato); un detenuto è al lavoro all’ingresso, un altro trascina con la mano sinistra il cadavere di una donna, con la destra, per un braccio, quello di un bambino verso i forni. Nella parte sinistra del disegno si vede lo spigolo dell’ultimo forno a tre muffole. In questo disegno è evidente che lo strumento con cui il detenuto summenzionato trascina la donna non può essere un bastone da passeggio, perché esso, nella mano del detenuto, presenta una curvatura a uncino, che invece, secondo l’affermazione di Venezia, dovrebbe avvolgere la nuca della donna. Lo strumento è più verosimilmente una cinghia stretta al collo della donna. La cinghia è infatti menzionata, in diverse varianti, da altri testimoni. M. Nyiszli, ad esempio, ha scritto:
«Fissano di nuovo le cinghie ai polsi dei morti e li trascinano sugli appositi scivoli che li scaricheranno direttamente davanti ai forni» (182).
La scena descritta è chiaramente falsa, perché pone la presunta camera a gas al pianterreno, in comunicazione diretta con la sala forni. Il locale si trovava invece notoriamente nel seminterratto (Kellergeschoss) del crematorio, e Venezia stesso parla del montacarichi usato per trasportare i cadaveri dalla presunta camera a gas alla sala forni (183).
Tuttavia, incredibilmente, né Venezia, né M. Pezzetti hanno rilevato questo grossolano errore architettonico.
Sempre a proposito del trasporto dei cadaveri, Venezia aggiunge:
«Nel disegno di David Olère, si vede un corridoio d’acqua davanti ai forni che serviva per trasportare più facilmente i corpi tra il montacarichi e i forni. Buttavamo dell’acqua in quel rigagnolo e i cadaveri scivolavano senza troppi sforzi» (184).
Questo «corridoio d'acqua» richiama lo «scivolo» menzionato da M. Nyiszli. Il disegno in questione appare nella pagina seguente del libro (185). Per ora ne esamino solo la parte destra. Su quella sinistra, che mostra la tecnica di caricamento di una muffola, ritornerò successivamente. A destra dunque, si vede l’apertura del montacarichi con una porta a due ante aperta.
Qui si impone una breve digressione. Venezia scrive che «il montacarichi non aveva porte; un muro ne bloccava un lato e, in alto, i cadaveri venivano scaricati dall’altro lato» (186). Questa descrizione non è solo in contrasto col disegno di Olère, ma, cosa molto più grave, col disegno del montacarichi che fu installato nel crematorio III. Si tratta del disegno 5037 redatto dalla ditta Gustav Linse Spezialfabrik f.[ür] Aufzüge (fabbrica speciale di montacarichi) di Erfurt il 25 gennaio 1943 che ha l’intestazione «Lasten-Aufzug bis 750 kg Tragkraft für Zentralbauleitung der Waffen SS, Auschwitz/O.S.» (Montacarichi fino a 750 kg di portata per la Zentralbauleitung der Waffen SS, Auschwitz Alta Slesia) (187). Esso mostra che il montacarichi aveva una porta a due ante su entrambi i lati. Una si apriva verso la sala forni, l’altra verso il locale denominato “Waschraum und Aufbahrungsraum” di cui ho già parlato.
Torniamo al disegno di Olère. A partire dal montacarichi, lungo la parete della sala forni con le finestre, sul pavimento corre una striscia larga approssimativamente un metro e mezzo (188). Su di essa non vi sono cadaveri; un mucchio di cadaveri appare invece tra essa e i forni. Questa striscia si trovava in realtà nel crematorio II. Nella sua sala forni, davanti a ogni muffola, nel pavimento, erano installate originariamente tre paia di rotaie collegate a due rotaie di caricamento dei forni (Gleis zur Beschickung der Öfen) che erano disposte perpendicolarmente alle prime fino al montacarichi (Aufzug). Sulle rotaie scorreva il carrello di introduzione dei cadaveri, che si chiamava “Sarg-Einführungs-Vorrichtung”, dispositivo di introduzione della bara. Nel marzo 1943 fu deciso di sostituire questo dispositivo con più pratiche «barelle per cadaveri» (Leichentragen) (189). Le rovine della sala forni del crematorio II presentano ancora le rotaie che erano collocate davanti alle muffole; le rotaie di caricamento che andavano fino al montacarichi furono invece divelte e i relativi solchi nel pavimento in cui erano alloggiate delimitano appunto una striscia di cemento che sembra uno scivolo. Nel crematorio III fu deciso fin dalla fine di settembre del 1942 di sostituire il carrello di caricamento dei cadaveri con le barelle (190), perciò nella sala forni non furono installate rotaie e non c'era alcuno “scivolo” davanti al montacarichi.
La narrazione di Venezia si ispira anche ad altri disegni di Olère.
Il racconto delle vittime che, non riuscendo a camminare, venivano trasportate ai crematori con camion e venivano buttate giù ribaltando il cassone, «come sabbia da scaricare e loro cadevano uno sopra l’altro» (191), è un semplice commento del relativo disegno di Olère, presentato come «donne selezionate nel campo, scaricate davanti al Crematorio III» (192).
La storia assurda che, a suo dire, gli era stata riferita da alcuni uomini del “Sonderkommando”, secondo la quale «nel Crematorio V i camion scaricavano direttamente le vittime, ancora in vita, nelle fosse che bruciavano a cielo aperto» (193), proviene parimenti da due disegni di Olère non pubblicati nel libro di Venezia. Essi recano la seguente didascalia: «SS che gettano dei bambini vivi in una fossa ardente (Bunker 2/V)». I due disegni (il primo è la bozza del secondo) mostrano la parte posteriore di un autocarro sul ciglio di una “fossa di cremazione” ardente; il cassone, pieno di bambini, è inclinato verso la fossa e da esso un soldato SS, parimenti sul ciglio della fossa, afferra i bambini e li getta dentro; un altro soldato, ancora sul ciglio della fossa, saluta col braccio teso. Nella realtà, i due soldati, a causa del calore irraggiato dal rogo, sarebbero bruciati vivi, mentre il serbatoio dell’autocarro sarebbe esploso in pochi minuti.
Venezia parla di due Tedeschi che stavano sulla porta della camera a gas (194): perché proprio due? Perché il relativo disegno di D. Olère mostra, appunto, due Tedeschi (195).
[Clicca sull’immagine per averne l’ingrandimento. Si faccia lo stesso per tutti gli altri disegni di Davide Olère acquisite tramete scanner da libro di Shlomo Venezia, Sonderkommand Auschwitz. - N.d.R.]
Il ritratto dell’SS-Unterscharführer Johann Gorges
(196) eseguito da D. Olère (197), suggerisce a Venezia questa descrizione:
«Alto, il viso largo, ma non ricordo il nome. Assomigliava a una delle SS disegnate da David Olère» (198).
L’idea è tratta da F. Müller, che descrive fisicamente «Gorges», affermando tra l’altro che era alto (un metro e ottanta centimetri) (199).
L’aneddoto della bambina trovata viva nella camera a gas, che Venezia espone con ricchezza di particolari, fa parte dei topoi letterari di questo genere di narrativa, come quello dei parenti incontrati nella camera a gas (200). Ad esempio, M. Nyiszli dedica un intero capitolo a questo aneddoto: in questo racconto, si tratta di una ragazza (201). Venezia riferisce invece del ritrovamento di una bambina di due mesi, viva, nella camera a gas (202).
13.
Forni crematori e cremazione
Venezia non fornisce alcuna descrizione né della sala forni, né dei forni crematori: non dice neppure quanti erano, meno che mai come erano strutturati e come funzionavano.
L’unica cosa che racconta a questo riguardo, è il caricamento di una muffola di un forno:
«Davanti a ogni muffola tre uomini si occupavano di infornare i cadaveri. I corpi erano disposti su una specie di barella, uno per la testa e uno per i piedi. Due uomini, ai lati della barella, la sollevavano con l’aiuto di un lungo pezzo di legno inserito dal di sotto. Il terzo uomo, di fronte al forno, impugnava i manici e infornava la barella. Doveva far scivolare i corpi e riprenderla velocemente, prima che il ferro si scaldasse troppo. Gli uomini del Sonderkommando avevano preso l’abitudine di versare dell’acqua sulla barella prima di disporvi i corpi, per evitare che si incollassero al ferro incandescente, altrimenti il lavoro diventava ancora più difficile: bisognava staccare i corpi con una forca e dei pezzi di pelle rimanevano attaccati» (203).
Questa narrazione è il risultato di un’incauta fusione del disegno di D. Olère che appare nella pagina seguente del libro con un’eco del relativo racconto di H. Tauber. Il disegno è quello che ho già esaminato in relazione al presunto «corridoio d’acqua», che si trova nella parte destra (204). A sinistra appare appunto la scena di tre detenuti che introducono dei cadaveri nella muffola centrale di un forno con la Leichentrage.
Questa scena non può corrispondere alla realtà.
Documento 1: Disegno di David Olère del 1945. Da: David Olère. A Painter in the Sonderkommando at Auschwitz. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989, p. 57.
Anzitutto le dimensioni dell’apertura della muffola e conseguentemente dei forni sono assolutamente spropositate. Il culmine della volta della porta della muffola supera di gran lunga le teste dei tre detenuti, mentre in realtà si trovava ad appena 132 centimetri dal pavimento (205). Se D. Olère avesse rappresentato la muffola con le sue dimensioni reali, non avrebbe potuto raffiguare la scena del caricamento contemporaneo di tre cadaveri. D’altra parte, un tale carico avrebbe anche ostacolato il processo di combustione: i cadaveri avrebbero ostruito sia le aperture intermuffola attraverso le quali i gas provenienti dai gasogeni affluivano dalle muffole laterali in quella centrale, sia le aperture della griglia di questa stessa muffola, attraverso le quali i gas combusti si immettevano nel condotto del fumo sottostante.
In secondo luogo, il disegno mostra fiamme e fumo che escono dalla muffola aperta, ma ciò era impossibile, perché fumo e fiamme erano risucchiati immediatamente dal tiraggio del camino, nella muffola centrale tanto più intensamente in quanto le aperture del condotto di scarico del forno a 3 muffole collegato al camino si trovavano proprio in essa, nel cenerario sottostante. La muffola centrale del forno a 3 muffole si apriva a destra: di conseguenza il detenuto disegnato a destra che sorregge la barella si sarebbe trovato davanti al lato interno della porta di introduzione della muffola, che aveva una temperatura di esercizio di 800°C. Questo detenuto, che, al pari dei suoi due compagni, appare a torso nudo, si sarebbe dunque ustionato mortalmente.
Inoltre la tecnica di caricamento esposta nel disegno è errata. Il forno a 3 muffole era dotato di due rulli di scorrimento (Laufrollen), fissati ad un telaio ribaltabile imperniato su un’asta di fissaggio (Befestigungs-Eisen) rotonda saldata alle barre di ancoraggio del forno sotto le porte delle muffole. Questi rulli servivavo inizialmente per lo scorrimento all’interno della muffola della trave di caricamento del carrello di introduzione dei cadaveri, successivamente per lo scorrimento della Leichentrage, i cui tubi laterali, larghi quanto i rulli, vi venivano appunto appoggiati sopra per permettere alla barella di scorrere facilmente all’interno della muffola. Ciò è appunto quanto riferisce Tauber, il quale però aggiunge che l’operazione era eseguita da sei detenuti, non da tre. La tecnica esposta nel disegno di Olère avrebbe comunque richiesto almeno quattro detenuti, perché il detenuto addetto alla barella non avrebbe potuto, da solo, «far scivolare i corpi» sulla griglia di argilla refrattaria della muffola. Questo, come dice Tauber, era compito di un altro detenuto, che doveva tenere fermi i cadaveri con un raschiatoio mentre la barella veniva estratta dalla muffola (206).
Documento 2: Esponenti del Congresso degli Stati Uniti davanti ai forni del crematorio di Buchenwald nel 1945, da http://www.vho.org/GB/thottc/Image29.jpg.
In primo piano, a sinistra, si vede la muffola centrale del primo forno con la porta aperta.
I rulli permettevano ai due detenuti che sollevavano la barella con una sbarra di ferro (non con «un lungo pezzo di legno», come Venezia ha malamente desunto dal disegno di D. Olère) di restare a distanza di sicurezza dalla porta spalancata della muffola evitando loro di ustionarsi.
La cosa più sorprendente è che D. Olère, nel quinto forno crematorio a 3 muffole, ha disegnato correttamente sia l’asta di fissaggio, sia i rulli di scorrimento!
Venezia, infine, ispirandosi molto liberamente al racconto di Tauber, ha dimenticato di precisare che l’acqua versata sulla barella doveva essere saponata:
«Si faceva sciogliere del sapone nell’acqua, in maniera che i corpi scivolassero meglio sulla barella» (207).
Passiamo alla questione essenziale della capacità di cremazione dei forni.
Nella sua prima dichiarazione, Venezia al riguardo ha affermato:
«Dopo queste operazioni i cadaveri venivano gettati sul montacarichi, che li portava al piano terra dove c’erano le bocche dei crematori. Qui altri prigionieri li inserivano, due, tre alla volta nei forni. Dopo venti minuti rimaneva solo cenere e pezzi delle ossa più grandi» (208).
Questi dati – 3 cadaveri in 15 muffole in 20 minuti per 24 ore – sono tratti dalla testimonianza di M. Nyiszli:
«Sono messi per tre su una specie di carrozzina costruita in lamiera d’acciaio. [...]. L'incinerazione dura venti minuti» (209).
Ciò corrisponde ad una capacità di cremazione massima teorica di (3 x 15 x 24 x 60/20 =) 3.240 cadaveri.
In aperta contraddizione con ciò, nell’intervista pubblicata da “Il Giornale” e da “Gente”, Shlomo Venezia ha dichiarato:
«[Domanda] I forni quante ore al giorno funzionavano?
[Venezia] Ventiquattro su 24. Noi facevamo turni dalle 8 alle 20 oppure dalle 20 alle 8. Cremavamo 550-600 ebrei al giorno» (210).
Dunque la capacità di cremazione massima dei forni del crematorio III era di 600 cadaveri in 24 ore, e tra 600 e 3.240 la differenza non è poca! Venezia afferma inoltre che
«la camera a gas aveva una capienza di circa 1.400 persone, ma i nazisti arrivavano a stiparne 1.700» (211),
perciò per cremare un carico di gasati erano necessari (1.700 : 600 =) quasi 3 giorni (in realtà quasi 6 giorni), ed egli lo ha anche dichiarato esplicitamente:
«In media, l'intero processo di eliminazione di un convoglio durava 72 ore. Uccidere la gente era una cosa veloce, più lungo era bruciare i cadaveri: non c’era un minuto di stasi» (212).
Così egli ha confermato la capacità di cremazione massima di 600 cadaveri in 24 ore. Ma nel libro Venezia ha scritto:
«I Crematori IV e V erano più piccoli dei Crematori II e III; i forni funzionavano meno bene e avevano una capacità inferiore. Le fosse permettevano di accelerare il ritmo di eliminazione dei cadaveri: bruciare settecento corpi in forni così piccoli era un’operazione lunga, tanto più che i forni non funzionavano correttamente. Da noi, invece, potevano entrare fino a milleottocento persone» (213).
La capacità di cremazione del crematorio tipo II/III addotta dal testimone, dunque, prima scende da 3.240 a 550-600 e poi risale a 1.800 cadaveri in 24 ore, senza alcuna spiegazione.
Qui è interessante sapere che cosa dichiararono i compagni di sventura di Venezia. Suo cugino Y. Gabai disse che in ogni muffola si caricavano quattro cadaveri (vier Leichen), che bruciavano completamente in mezz'ora, sicché la capacità del crematorio III era di (4 x 15 x 24 x 60/30 =) 2.880 cadaveri in 24 ore (214) .
J. Sackar affermò:
«Nel forno il fuoco [sic] era così caldo che i cadaveri bruciavano immediatamente [sofort] e vi si potevano introdurre continuamente altri cadaveri».
Questa fantastica cremazione immediata faceva sì che, in tutti i crematori di Birkenau, si potessero cremare «quasi 20.000 uomini [sic] al giorno»! (215)
Il quantitativo spettante al crematorio III, considerato che il numero complessivo delle muffole era di 46, di cui 15 si trovavano in questo crematorio, ammontava a ([20.000 : 46] x 15) circa 6.500 cadaveri in 24 ore.
S. Chasan asserì invece che in ogni muffola si caricavano «tra due e cinque cadaveri» e la cremazione durava mezz'ora, perciò «ogni mezz'ora si potevano cremare da 50 a 75 cadaveri», ossia, al massimo, appunto (75 : 15 =) 5 cadaveri cadaveri per muffola. Ciò significa 150 cadaveri in un'ora e 3.600 in 24 ore.
Riassumo le affermazioni dei testimoni su questo aspetto cruciale del presunto processo di sterminio nella seguente tabella:
capacità di cremazione | testimone |
Venezia 1 | 3.240 |
Venezia 2 | 550-600 |
Venezia 3 | 1.800 |
Gabai | 2.880 |
Sackar | 6.500 |
Chasan | 3.600 |
Non c’è bisogno di ricordare che i testimoni si riferivano agli stessi impianti nello stesso periodo.
Tuttavia, nel corso degli interrogatori cui furono sottoposti dai ufficiali del servizio di controspionaggio sovietico, gli ingegneri della Topf Kurt Prüfer e Karl Schultze, che avevano progettato l’uno il forno a 3 muffole, l’altro la sua soffieria, dichiararono unanimamente che in tale impianto la cremazione di un solo cadavere in una muffola richiedeva un’ora (216) e questa era appunto la capacità reale che risulta da altre fonti tecniche concordanti (217). Pertanto la capacità di cremazione massima teorica del crematorio modello II/III era di (15 x 24 =) 360 cadaveri in 24 ore. Dico “teorica” perché i forni crematori non potevano funzionare continuativamente 24 ore su 24, come spiegherò subito.
Nella sua intervista apparsa su “Gente”, la domanda «I forni quante ore al giorno funzionavano?» è formulata così: «I forni erano sempre accesi?». La risposta è la stessa: «Ventiquattro ore su 24» (218). Questa è un’altra assurdità termotecnica, perché i forni di Birkenau, essendo riscaldati con coke, richiedevano una sosta giornaliera per la pulizia delle griglie dei gasogeni. Ciò era esplicitamente prescritto dalle istruzioni di servizio del forno a 2 e a 3 muffole della Topf, la ditta costruttrice:
«Ogni sera bisogna liberare le griglie dei gasogeni dalle scorie ed estrarre la cenere». [«Jeden Abend müssen die Generatorroste von den Koksschlacken befreit und die Asche herausgenommen werden»] (219).
Ma ciò fu anche dichiarato dal prof. Roman Dawidowski, perito dell'accusa al processo Höss, e accettato dal giudice istruttore J. Sehn, il quale scrisse che i forni crematori di Auschwitz-Birkenau richiedevano ogni giorno «un intervallo di tre ore per pulire i gasogeni dalle scorie» (220).
Aggiungo che la previsione del consumo di coke dei crematori di Birkenau stilata da un impiegato civile della Zentralbauleitung di Auschwitz il 17 marzo 1943 presupponeva un funzionamento dei forni di 12 ore al giorno (221).
Venezia afferma inoltre che le ceneri dei cadaveri
«venivano portate ad una spianata di cemento dietro al crematorio, dove le ossa dovevano essere sminuzzate dai prigionieri con degli attrezzi simili a quelli usati per battere i sampietrini» (222).
Questa storia è tratta dalla testimonianza di F. Müller, che ha scritto:
«Per poter eliminare rapidamente e senza dare nell’occhio le ceneri provenienti dai crematori e dalle fosse, Moll fece cementare presso il crematorio, accanto alle fosse, una superficie di circa 60 x 16 metri, sulla quale le ceneri delle fosse furono poi finemente polverizzate per mezzo di mazzeranghe» (223).
Tuttavia per F. Müller tale presunta «spianata di cemento» si trovava esclusivamente «nel cortile interno del crematorio V» (224), mentre Venezia la colloca nel cortile del crematorio III. In realtà una tale «spianata di cemento» non è mai esistita né nel cortile del crematorio V né in quello del crematorio III: di essa non esiste traccia nelle fotografie aeree americane di Birkenau del 1944, in particolare in quelle, molto chiare, del 31 maggio 1944 (225), né esistono resti architettonici in loco.
Nel libro, Venezia ha rinunciato alla storia della «spianata di cemento», scrivendo in modo vago:
«Le ossa venivano frantumate prima di essere mescolate con le ceneri. L'operazione avveniva nel cortile del Crematorio, dietro l'edificio. Nel Crematorio III il luogo per triturare le ceneri si trovava all'angolo, vicino all'ospedale e al campo degli zingari. Le ceneri sminuzzate e passate più volte al setaccio come quello dei muratori, venivano poi trasportate su una piccola carriola» (226).
Ma anche il riferimento alla carriola è tratto dalla testimonianza di Müller (227).
Nella sua prima intervista, Venezia ha raccontato la trita storiella dei camini fiammeggianti:
«Dalla finestra si vedevano delle fiamme, era una cosa spaventosa, da un camino uscivano le fiamme… […].
Noi ancora non sapevamo niente, avevamo visto le fiamme e ci avevano detto che c’erano i crematori…» (228) .
Come ho rilevato ripetutamente, la storia dei camini fiammeggianti è una assurdità tecnica (229). Probabilmente il testimone ne ha avuto sentore, perché in seguito non l’ha più ripetuta. Nell’intervista pubblicata da “Il Giornale”, egli ha dichiarato: «All’arrivo però notai subito quel fumo che usciva dai camini» (230).
Venezia non menziona questa storia fantasiosa neppure nel libro, ma qui appare un disegno di Olère che rappresenta «il Crematorio II in attività» col camino fiammeggiante! (231). [Clicca sull’immagine per ingrandirla. Nota aggiunta di A.C.]
In compenso, Venezia racconta un’altra storia che riguarda il camino del crematorio III:
«Il lavoro non doveva mai fermarsi, lavoravamo in due turni, uno di giorno e uno di notte. Una catena continua, ininterrotta. Soltanto una volta fummo costretti a sospendere il lavoro per due giorni a causa di un problema alla ciminiera. Per il troppo calore alcuni mattoni si erano fusi e avevano ostruito la canna fumaria. Per i tedeschi perdere due giorni di lavoro era un dramma. Un giovane ebreo polacco, coperto di sacchi per proteggersi dalla fuliggine e dal calore, aprì lateralmente la base del camino ed estrasse i mattoni lucidi, incrostati di grasso umano che causavano il problema» (232).
L’aneddoto è liberamente ispirato a un evento (in parte fantasioso) descritto da Müller, che risaliva però al 1942:
«Le fiamme si erano già attizzate così vivamente e il calore aveva già raggiunto una tale intensità che i mattoni refrattari del camino si sciolsero e il forno bruciò, mentre dei mattoni caddero nel canale che univa il forno al camino» (233).
Il racconto di Venezia è irreale e anche piuttosto ingenuo. Anzitutto il camino non aveva «la canna fumaria», ma «le canne fumarie»: tre. In secondo luogo, ciascuna aveva una sezione di cm 80 x 120 e in ogni canna fumaria si immetteva un condotto del fumo di identiche dimensioni. Perciò «alcuni mattoni» non avrebbero ostruito nulla. In terzo luogo, quando si verificavano dei guasti, l’amministrazione del campo si rivolgeva alla ditta Topf se essi riguardavano i forni, alla ditta Koehler se si riferivano ai condotti del fumo e al camino, che erano stati costruiti da essa. Ad esempio, il 9 maggio 1944 il Bauleiter del KL II (Birkenau) chiese al comando del campo un «permesso di accesso ai crematori I-IV» (Genehmigung zum Betreten der Krematorien I-IV) per la ditta Koehler, perché essa era incaricata di «lavori urgenti di riparazione nei crematori» (mit dringenden Instandesetzungsarbeiten bei Krematorien beauftragt ist) (234).
Ma se proprio un detenuto doveva entrare nel camino, non avrebbe aperto «lateralmente la base del camino [?]», ma piuttosto la porta di pulizia (Reinigungstür) che si trovava alla base del camino e di cui Venezia, evidentemente, non sapeva nulla.
Infine, nei forni crematori, che funzionavano con una temperatura di esercizio di 800°C, il grasso dei cadaveri bruciava completamente nelle muffole, sicché nel camino non si potevano trovare mattoni «incrostati di grasso umano».
Venezia parla inoltre di una «sala del camino» che descrive come segue:
«Così di tanto in tanto, quando potevo fare una pausa e far continuare gli altri per un po’ senza di me, salivo in quella piccola stanza quadrata e suonavo l’armonica per rilassarmi o mi appoggiavo semplicemente al davanzale della finestra per prendere aria. Quella piccola sala, con una finestra e al centro il grande condotto del camino in mattoni, quadrato, era il mio rifugio» (235).
Ma la «sala del camino» era il “Müllverbrennungsraum”, il locale in cui si trovava l’incineritore per le immondizie (Müllverbrennungsofen) e l’imponente camino, che del resto non era quadrato, ma rettangolare (misurava circa m 4 x 2,5); non si trattava ovviamente di una «piccola stanza», perché aveva all’incirca dimensioni di m 10 x 8, inoltre aveva 4 finestre e 2 finestrelle. Dall’altra parte del camino, verso la sala forni, separate da un muro, c’erano tre piccole stanze quadrate. Quella centrale, nel crematorio II, era destinata originariamente ad alloggiare uno dei tre impianti di tiraggio aspirato del camino (Saugzuganlagen), che nel crematorio III non furono installati; le due stanze laterali, ciascuna con una finestra, erano denominate “Motorraum” (sala motori). Solo quella in mezzo aveva «al centro il grande condotto del camino in mattoni», ma questo era invisibile, al di là del muro, nel “Müllverbrennungsraum”, inoltre essa non possedeva alcuna finestra. Del resto queste tre stanze si trovavano al livello della sala forni, sicché non si poteva «salire» in nessuna di esse. In conclusione, la stanza descritta da Venezia non esisteva.
15.
La rivolta del “Sonderkommando”
Venezia dedica a questa vicenda un intero capitolo, che comincia così:
«L’idea della rivolta era nata prima del mio arrivo a Birkenau ed era sopravvissuta alle diverse selezioni grazie ad alcuni Kapos che, come Lemke o Kaminski, si trovavano nel campo da lungo tempo e si erano incaricati della sua organizzazione» (236).
Nell’intervista pubblicata da “Il Giornale”, Venezia aveva detto esplicitamente che «in media ogni tre mesi i Sonderkommando [sic] venivano uccisi a loro volta» (237). Questa storia proviene da M. Nyiszli, che aveva dichiarato più generosamente:
«La vita d’un Sonderkommando dura quattro mesi. Allo scadere dei quattro mesi, un bel giorno arriva una compagnia di ss, raduna tutti gli uomini nel cortile posteriore del crematorio. Una raffica di mitra e mezz’ora dopo ecco il nuovo Sonderkommando» (238).
Commento con le parole di C. Saletti:
«Sono innumerevoli i testi memorialistici e critici su Auschwitz in cui si sostiene che la durata della vita dei prigionieri del Sonderkommando non era superiore ai quattro mesi, e che una volta trascorso il termine essi venivano, regolarmente, eliminati. Nessuna delle due informazioni corrisponde a verità» (239).
La storia dell’eliminazione periodica dei detenuti del “Sonderkommando” è anche in contrasto con ciò che Venezia afferma riguardo alla loro sorveglianza:
«In genere c’erano due SS per ogni Crematorio; una durante il giorno, l’altra di notte» (240).
Il numero reale era appena più elevato: 22 guardie in quattro crematori, 10 di giorno e 12 di notte. Queste guardie dovevano tenere a bada 870 detenuti del cosiddetto “Sonderkommando”. Nel crematorio III, 5 guardie (2 di giorno e 3 di notte) dovevano fronteggiare 220 detenuti (241): un po’ pochino se costoro sapevano di essere destinati a morte certa!
Quanto al resto, Venezia è oltremodo evasivo. Egli non menziona la data ufficiale della presunta (242) rivolta (il 7 ottobre 1944), ma parla genericamente dell’inizio di ottobre (243); non menziona la presunta selezione e gasazione preliminare alla fine di settembre del 1944 di 200 detenuti del “Sonderkommando” dei crematori IV e V, che avrebbe innescato la rivolta pochi giorni dopo (244); non menziona il numero delle presunte vittime: 451; non menziona il numero dei superstiti: 212, in massima parte detenuti dei crematori III e V; non menziona la presunta selezione del 26 novembre 1944 nel corso della quale sarebbero stati uccisi altri 100 detenuti. Egli racconta che «il giorno dopo», dunque l’8 ottobre, «i tedeschi ordinarono che trenta persone uscissero per continuare il lavoro al Crematorio II e io decisi di far parte del gruppo» (245), mentre invece, secondo la versione ufficiale, i 30 detenuti furono scelti il 26 novembre per lavorare al crematorio V. Egli aggiunge:
«Quando le operazioni di smantellamento raggiunsero il tetto del Crematorio, i membri del Sonderkommando tornarono a dormire nel campo degli uomini, nella baracca isolata dove avevamo passato le prime notti da Sonderkommando. Eravamo meno di settanta» (246).
Qui evidentemente Venezia ha frainteso la versione ufficiale, secondo la quale, il 26 novembre 1944 70 detenuti furono assegnati all' Abbruchkommando (squadra di demolizione), perciò, alla fine, restavano «circa 100 detenuti del Sonderkommando» (247), non «meno di settanta».
Venezia, al pari dei suoi sedicenti ex colleghi, racconta di essere sfuggito fortunosamente o miracolosamente a morte certa, perché tutti i detenuti del “Sonderkommando” dovevano essere uccisi. Di ciò, come scrive, venne a conoscenza fin dall’inizio:
«Sempre da lui seppi che tutti coloro che facevano parte del Sonderkommando venivano “selezionati” e “trasferiti” in altro luogo, ma io non compresi subito che le parole “selezione” e “trasferimento” erano degli eufemismi che significavano in realtà “eliminazione”. Tuttavia non ci misi molto a capire che eravamo stati integrati nel Sonderkommando al posto di altri prigionieri “selezionati” e uccisi» (248).
Successivamente egli afferma:
«Per i tedeschi l’evasione di un membro del Sonderkommando era gravissima; non potevano assolutamente permettersi di lasciar evadere un uomo che aveva visto l’interno delle camere a gas» (249).
Allora come riuscì a salvarsi? Riassumo la sua lunga narrazione.
Il 17 gennaio 1945 la guardia SS che accompagnò alla loro baracca alloggio i superstiti del “Sonderkommando”, disse loro che «era assolutamente proibito uscire» e se ne andò. Ma Venezia venne a sapere che era in corso l'evacuazione del campo e capì che essi sarebbero stati uccisi. Allora uscirono tutti dalla baracca mescolandosi con gli altri detenuti. Così egli riuscì a sfuggire «alla liquidazione programmata del Sonderkommando». Indi racconta:
«Di tanto in tanto, durante la notte, un tedesco passava tra i prigionieri e urlava: “Wer hat im Sonderkommando gearbeitet”, “Chi ha lavorato nel Sonderkommando”»,
domanda non molto sensata, perché, come ho spiegato sopra, ad Auschwitz-Birkenau esistettero almeno undici “Sonderkommandos”.
«Nessuno rispondeva - continua Venezia -. Continuarono a domandarlo con regolarità, durante tutta la strada; non avevano altro modo di ritrovarci» (250).
In realtà i detenuti furono evacuati in trasporti recanti cognome, nome e numero di matricola. In uno appare anche Filip Müller (251).
Cinque detenuti polacchi del “Sonderkommando” (252) erano già stati trasferiti a Mauthausen il 5 gennaio 1945 (253). Il trasferimento fu trascritto anche nelle schede personali di questi detenuti, come risulta da quella del Kapo M. Morawa (254). Se dunque le SS avessero realmente voluto sterminare i detenuti del “Sonderkommando”, questi non avrebbero avuto scampo.
Successivamente anche Venezia e gli altri superstiti del “Sonderkommando” furono trasferiti a Mauthausen. Il suo trasporto di evacuazione giunse al campo il 25 gennaio: constava di 5.725 detenuti, che furono immatricolati con i numeri 116501-122225 (255).
Venezia narra così l’arrivo e l’immatricolazione:
«Dormii due notti all’aperto per essere tra gli ultimi a entrare nella Sauna. Ero con mio fratello, i miei cugini e altri amici di Auschwitz. Dei soldati passavano di tanto in tanto chiedendo: “Wer hat im Sonderkommando gearbeitet?”. Per evitare che ci scoprissero, proposi a mio fratello di cambiare nome. Invece di “Venezia”, se me lo avessero chiesto avrei risposto che mi chiamavo “Benezia”. [...]. Come il primo giorno a Birkenau fummo costretti a spogliarci completamente, dei detenuti ci rasarono la testa e il corpo e ci venne assegnato un numero. A differenza che ad Auschwitz il numero non era tatuato; Auschwitz è l’unico campo dove i prigionieri venivano tatuati. Ci diedero invece una specie di bracciale in ferro con una piastrina; sulla mia era scritto il numero 118554, la mia matricola a Mauthausen. Quando mi chiesero il nome, dissi “Benezia” e loro, capendo male, scrissero “Benedetti” (256)» (257).
E con questo sotterfugio Venezia si salvò per la seconda volta.
Questa storia non può essere vera per il semplice fatto che, come ricorda Venezia stesso, egli e i suoi compagni recavano tatuato sul braccio il marchio indelebile della loro appartenenza al “Sonderkommando”: il numero di matricola di Auschwitz. Se dunque le SS avessero davvero voluto rintracciare i detenuti che avevano lavorato nei crematori, non avrebbero mandato un soldato a gridare tra i detenuti «“Wer hat im Sonderkommando gearbeitet?», ma avrebbero controllato il numero di matricola di ogni detenuto nella sauna nel corso dell’immatricolazione. Il sotterfugio di Venezia è in effetti di una ingenuità disarmante: egli cambiò il suo cognome per evitare che lo scoprissero, dunque le SS avevano una lista nominativa dei detenuti del “Sonderkommando”, ma allora avevano necessariamente anche una lista dei numeri di matricola (258).
È dunque certo che le SS non cercarono i detenuti del “Sonderkommando” né a Birkenau, né a Mauthausen, e ciò si spiega col semplice fatto che costoro non erano depositari di alcun “terribile segreto”.
Nell’
da «Dopo quanti anni è tornato ad Auschwitz?», rispose:
«Quarantasette. Non ho trovato il crematorio. Ci sono rimasto male, perché non sapevo che i tedeschi l’avessero demolito. Devono aver faticato molto. Era stato costruito come il Colosseo: doveva durare per l’eternità» (259).
Nel libro, egli ha confermato:
«Non sapevo che i nazisti, fuggendo, avevano fatto saltare i crematori; vedere le rovine mi ha sorpreso» (260).
In flagrante contraddizione con ciò, nel libro, Venezia ha scritto:
«Verso la fine di ottobre [1944] arrivò l’ordine di cominciare a smantellare i Crematori. Continuammo a lavorare occasionalmente nel Crematorio II, le rare volte che arrivava un convoglio, ma lavoravamo soprattutto allo smantellamento degli altri Crematori. Ci volle molto tempo, perché i tedeschi volevano che li eliminassimo un pezzo alla volta. Le strutture erano molto solide; erano state costruite per durare a lungo. Avrebbero potuto utilizzare la dinamite, ma volevano demolire sistematicamente tutto l’interno della struttura: i forni, le porte della camera a gas e tutto il resto. E dovevano farlo gli uomini del Sonderkommando; eravamo i soli a poter vedere l’interno delle camere a gas. Per smontare la struttura esterna vennero invece impiegati altri prigionieri, tra cui donne provenienti da Birkenau e detenuti da Auschwitz I» (261).
Dunque egli aveva partecipato personalmente alla demolizione del “suo” crematorio!
La storia narrata da Venezia contiene inoltre un errore cronologico. Ciò che si sa al riguardo, è che l’attività dei crematori II e III cessò all’inizio di dicembre del 1944: il 1° dicembre fu istituito un commando femminile per la demolizione del crematorio III (262); il giorno 8, il capo della Zentralbauleitung, l’ SS-Obersturmführer Werner Jothann, chiese all’Abteilung IIIa (impiego lavorativo dei detenuti) l’assegnazione immediata di 100 detenuti per i lavori di demolizione «presso il crematorio [nel] campo II» (beim Krematorium Lager II) (263), indubbiamente il crematorio II. D. Czech riferisce che il Kommando 104b, la squadra di demolizione dei crematori, era costituito da 70 detenuti del “Sonderkommando”; essi praticarono dei fori nelle pareti dei crematori e delle presunte camere a gas in cui furono inserite cariche esplosive (264), esattamente il contrario di ciò che afferma Venezia.
Il libro “Sonderkommando Auschwitz” viene presentato come “La verità sulle camere a gas” e come “Una testimonianza unica”. Questi giudizi sono del tutto infondati perfino dal punto di vista della storiografia olocaustica.
Questo libro non fornisce infatti nessuna «verità» prima ignota e conferma solo in modo confuso e sfumato le «verità» già note. Esso non apporta alcun contributo importante o anche semplicemente nuovo alla conoscenza di Auschwitz, anzi, elude sistematicamente tutte le questioni storicamente rilevanti.
La cronologia è praticamente inesistente. Dopo la data dell’arrivo ad Auschwitz, l’11 aprile 1944 (265), la data successiva che appare nel libro è l’inizio di ottobre del 1944 (266), sicché il racconto di quasi cinque mesi di attività nel “Sonderkommando” del crematorio III si svolge in una sorta di tempo al di fuori del tempo. Su questo “Sonderkommando”, Venezia non dà alcuna informazione storicamente utile: da quanti detenuti era costituito, come erano ripartiti nei vari crematori, quali erano le loro specifiche mansioni, ecc. Anche sulla rivolta finale del “Sonderkommando” egli non elargisce alcun dettaglio di rilievo, neppure la data.
Egli parla del crematorio III in modo estremamente vago: non dice nulla di come si presentava esternamente, quasi nulla di come era fatto internamente, nulla di come appariva la mansarda (che si chiamava Dachgeschoss), dove si trovava il suo alloggio.
Il processo di sterminio, nel libro di Venezia, resta parimenti avvolto nella nebbia.
Nessuna descrizione del “Bunker 2”, né delle sue presunte “fosse di cremazione”, di cui Venezia non indica neppure il numero.
Per quanto riguarda il crematorio III, la descrizione dello spogliatoio è evanescente, quella della camera a gas inesistente. Problemi storici essenziali per confutare il “negazionismo”, come quello dei congegni per l’introduzione dello Zyklon B, svaniscono in un imbarazzante silenzio; dal libro, non si apprende né quali fossero le dimensioni della camera a gas, né come fosse strutturata (267), né come fosse equipaggiata, né come fossero disposte le bocchette del sistema di aerazione e disaerazione, né come vi si accedesse dallo spogliatoio. Nessun cenno a come appariva la copertura di cemento armato del Leichenkeller 1 nel cortile nord del crematorio, se era al livello del suolo o rialzata, se presentava dei «camini», ed eventualmente quanti erano e come erano disposti.
La stessa nebbia aleggia nella narrazione della cremazione: anche qui, tutto è sfuggente e indistinto. Venezia non dice nulla riguardo ai forni crematori: sul loro sistema costruttivo, sul loro funzionamento, sul loro consumo di coke, neppure sul loro numero. Sulla loro capacità di cremazione, invece, fornisce tre dati precisi, ma tecnicamente assurdi e in contraddizione reciproca.
Dal punto di vista della storiografia olocaustica, dunque, questa testimonianza può essere definita «unica» soltanto per la sua inconsistenza, per la sua impalpabilità, per la sua evanescenza, per la sua totale e straordinaria mancanza di concretezza e di precisione.
Gli storici che hanno coadiuvato Venezia in questo progetto editoriale (268) dimostrano tutti i limiti di una inettitudine atavica. Il loro contributo più evidente, nel testo, si limita a una semplice revisione terminologica (269) e all’introduzione della terminologia tecnica (270) prima assente, ma non senza qualche strafalcione, come nel caso del «Leichenkeller» o del termine «Stücke». L’apparato delle note esplicative (271) è misero e acritico. Ma non si tratta solo di inettitudine. Nel saggio “La Shoah, Auschwitz e il Sonderkommando” (272), lo “specialista” di Auschwitz Marcello Pezzetti (273), nella bibliografia, menziona il libro di Gideon Greif “Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen “Sonderkommandos” in Auschwitz” che ho citato più volte. L’idea dell’iconografia di “Sonderkommando Auschwitz” è tratta chiaramente da quest’opera: essa contiene infatti quasi tutte le immagini che vi compaiono (274). Nonostante ciò, M. Pezzetti non ha informato il lettore del fatto importantissimo che l’opera di G. Greif raccoglie le testimonianze di ben quattro presunti compagni di “Sonderkommando” di Venezia, tra cui il cugino Yakob Gabbai. Questa grave dimenticanza diventa gravissima in considerazione delle incredibili contraddizioni che tali testimonianze presentano rispetto a quella di Venezia. Bisogna dunque pensare piuttosto a un silenzio intenzionale e oculato.
Non meno grave è il fatto che M. Pezzetti e i suoi colleghi hanno taciuto tutte le contraddizioni - che ho rilevato sopra – della narrazione di Venezia rispetto ai canoni della storiografia olocaustica, tutte le incoerenze cronologiche e architettoniche.
Nella prospettiva revisionistica, il giudizio sul libro di Venezia è ancora più severo.
Nel 1998, Valentina Pisanty, in un’opera sul cosiddetto “negazionismo”, si lasciò sfuggire questa magistrale analisi delle testimonianze olocaustiche:
«Spesso gli scrittori intrecciano le proprie osservazioni dirette con frammenti di “sentito dire” la cui diffusione nel lager era capillare. La maggior parte delle inesattezze riscontrabili in questi testi è attribuibile alla confusione che i testimoni fanno tra ciò che hanno visto con i propri occhi e ciò di cui hanno sentito parlare durante il periodo dell’internamento. Con il passare degli anni, poi, alla memoria degli eventi vissuti si aggiunge la lettura di altre opere sull’argomento, con il risultato che le autobiografie stese in tempi più recenti perdono l’immediatezza del ricordo in favore di una visione più coerente e completa del processo di sterminio» (275).
Ciò si addice perfettamente al testimone Venezia. Nel suo libro appare evidentissima l’impronta della «lettura di altre opere sull’argomento», soprattutto quella, fondamentale, dell’album di David Olère (276), ma anche delle testimonianze di Miklos Nyiszli e di Filip Müller, cui bisogna aggiungere gli incontri con altri sedicenti ex membri del “Sonderkommando” e storici (277). La fotografia che apparve nel 2002 su “Il Giornale”, successivamente ripresa anche su “Gente” (278), è rivelatrice: essa mostra infatti Venezia che tiene aperto, nelle mani, l’album di D. Olère, alla pagina in cui è ben visibile il disegno poi riprodotto a p. 92 di “Sonderkommando Auschwitz”. Qui Venezia vi nomina più volte il suo autore, e afferma perfino di averlo incontrato:
«Di francesi non ne ho visti; altrimenti avrei provato a parlare con loro. David Olère, ad esempio, non sapevo che fosse stato deportato dalla Francia; per me era un polacco che parlava yiddish».
La narrazione di Venezia relativa al presunto processo di sterminio è in effetti essenzialmente un commento dei disegni di D. Olère, spesso male interpretati. La scelta di pubblicare molti di questi disegni nel volume, indubbiamente suggerita dai suoi curatori, è solo apparentemente oculata, in quanto vorrebbe fornire una conferma della veridicità della narrazione di Venezia; in realtà si rivela malaccorta, perché è fin troppo evidente che è tale narrazione ad essere basata sui disegni. Ne è la riprova il fatto che essi mostrano scenari grossolanamente falsi che Venezia non è in grado di correggere.
Nei suoi disegni, D. Olère, lungi dal rappresentare la realtà, ha semplicemente illustrato i temi propagandistici creati dal movimento di resistenza di Auschwitz che circolavano al campo (279), incluse le leggende più assurde, come quella dei camini fiammeggianti, di cui mi sono occupato sopra, o quella della colorazione blu dell’acido cianidrico!
In un suo disegno a colori, senza data, che rappresenta una scena di gasazione, da un barattolo di Zyklon B si sprigionano infatti vapori blu! (280).
Questa leggenda fu ripresa, tra gli altri, dal cugino di Venezia, Yakob Gabbai, che dichiarò:
«Quando egli [un soldato SS] introduceva il gas da sopra, esso si diffondeva [con vapori] blu. Il materiale stesso era in forma di cubetti blu che si scioglievano a contatto coll’aria e sprigionavano il gas, che causava immediatamente l’asfissia» (281).
Come tutti gli sprovveduti loro pari, costoro credevano che il “Blausäure” (acido cianidrico, letteralmente: acido blu) fosse blu e sprigionasse vapori blu, mentre è risaputo che esso è un liquido incolore (282); il supporto poroso che veniva imbevuto di esso per produrre lo Zyklon-B era invece notoriamente costituito da granuli bianchi di farina fossile.
Venezia rivendica apertamente la sua qualità di testimone “oculare”:
«Birkenau era un vero inferno, nessuno può capire o entrare nella logica del campo. Per questo voglio raccontare tutto quello che posso, fidandomi solamente dei miei ricordi, di quello che sono certo di avere visto e niente di più» (283).
Ma egli non può aver visto scenari irreali, come palizzate fittizie, trasporti ebraici illusori, camini fiammeggianti, recupero di grasso umano immaginario, locali inesistenti, gasazioni fantastiche, cremazioni impossibili, ecc., né vissuto storie improponibili come quella della sua “salvezza”.
In conclusione, riprendendo l’analisi di V. Pisanty, si può dire che la testimonianza di Venezia è il frutto della confusione tra ciò che il testimone ha visto con i propri occhi, ciò di cui ha sentito parlare durante l’internamento e ciò che alla sua memoria degli eventi vissuti si è aggiunto successivamente dalla lettura di altre opere sull’argomento, col risultato che l’immediatezza del ricordo è scomparsa di fronte ad una una visione più coerente e completa del presunto processo di sterminio, cioè si è trasformata in un romanzo storico.
Ma proprio per questo gli storici che lo presentano come “La verità sulle camere a gas” e come “Una testimonianza unica” non possono avere nessuna scusante e nessuna giustificazione. Neppure la loro inettitudine atavica.
A cominciare da quelli che, già nel 2005, hanno incluso Venezia nel martirologio ufficiale del “Sonderkommando” di Auschwitz (284).
NOTE
(1) In: Olocausto: dilettanti a convegno. Effepi Edizioni, Genova, 2002, pp. 150-160. Torna al testo.
(2) In: Ragionamenti sui fatti e le immagini della storia. Mensile di Storia Illustrata, giugno 1995, pp. 30-37. Torna al testo.
(3) Consultabile in: http://www.gliscritti.it/approf/shoa/shlomo/shlomo.htm. Torna al testo.
(4) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», in: Il Giornale, 13 gennaio 2002, p. 1 e 16. Torna al testo.
(5) Gente, n. 41, 10 ottobre 2002, pp. 77-79. Torna al testo.
(6) C. Mattogno, Olocausto: dilettanti a convegno, op. cit., p. 150. Torna al testo.
(7) Rizzoli, Milano, 2007. Torna al testo.
(8) C. Mattogno, “Sonderbehandlung” ad Auschwitz. Genesi e significato. Edizioni di Ar, Padova, 2000, pp. 138-141. Torna al testo.
(9) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), a cura di Carlo Saletti. Ombre Corte, Verona, 2004, nota 2 a p. 15. Torna al testo.
(10) Vedi § 7. Torna al testo.
(11) Auschwitz 1940-1945. Studien zur Geschichte des Konzentrations- und Vernichtungslagers Auschwitz. Verlag des Staatlichen Museums Auschwitz-Birkenau, Oświęcim, 1999, volume III, Vernichtung (sterminio), redatto da F. Piper, note 359 e 360 a p. 213. Torna al testo.
(12) Vedi al riguardo il mio commento in “Sonderbehandlung” ad Auschwitz. Genesi e significato, op. cit., p. 139. Torna al testo.
(13) Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria, art. cit. Torna al testo.
(14) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 37. Nota al testo.
(15) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 176-177. Torna al testo.
(16) «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 77. Torna al testo.
(17) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen “Sonderkommandos” in Auschwitz. Böhlau Verlag, Colonia, Weimar, Vienna, 1985, pp. 125-166. Qui egli si presentò col nome Jaacov Gabai. Torna al testo.
(18) Idem, pp. 1-48. A p. 9 sono nominati i fratelli Venezia. Torna al testo.
(19) Idem, pp. 220-255. Shlomo Venezia è menzionato a p. 245. Torna al testo.
(20) Idem, pp. 256-285. Nota al testo.
(21) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 68. Torna al testo.
(22) Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945). Mursia, Milano, 1991, p. 599. Torna al testo.
(23) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 19. Torna al testo.
(24) Danuta Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945. Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg, 1989, p. 754. Torna al testo.
(25) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 52. Torna al testo.
(26) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, p. 130. Torna al testo.
(27) Idem, p. 129. Torna al testo.
(28) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 52. Torna al testo.
(29) La cosiddetta vecchia rampa (una banchina di legno) in cui si scaricavano i trasporti si trovava a poche centinaia di metri dal campo di Birkenau. Torna al testo.
(30) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, p. 129.Torna al testo.
(31) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 58.Torna al testo.
(32) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, p. 130. Torna al testo.
(33) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 52. Torna al testo.
(34) “Wassermannsche Reaktion”: una reazione chimica per individuare la sifilide scoperta dal batteriologo August Wassermann (1866-1925). Torna al testo.
(35) “Gonorrhöe”, gonorrea. Torna al testo.
(36) Rapporto trimestrale dell’ SS-Lagerarzt del KL Auschwitz I all’SS-WVHA, Amt DIII, del 16 dicembre 1943. GARF, 7121-108-32, pp. 95-96. Torna al testo.
(37) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 66-67. Torna al testo.
(38) Irena Strzelecka, «Das Quarantänelager für männliche Häftlinge in Birkenau (BIIa)», in: Hefte von Auschwitz. Verlag Staatliches Auschwitz-Museum, 1997, p. 71, 73 e 115. Torna al testo.
(39) Lettera di Bischoff a Wirths del 4 agosto 1943 con oggetto «Hygienische Sofortmassnahmen im KGL: Erstellung von Leichenhallen in jedem Unterabschnitt». RGVA, 502-1-170, p. 262. Torna al testo.
(40) Lettera di Wirths a Höss del 25 maggio 1944 con oggetto «Bau von Leichenkammern im KL Auschwitz II». RGVA, 502-1-170, p. 264. Per un approfondimento della questione rimando al mio studio «The Morgues of the Crematoria at Birkenau in the Light of Documents», in: The Revisionist, vol. 2, n. 3, agosto 2004, pp. 271-294. Torna al testo.
(41) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(42) Idem, p. 94. Torna al testo.
(43) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 34. Torna al testo.
(44) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 105. Torna al testo.
(45) Vedi ad esempio le liste di detenuti con nome e numero di matricola che ho pubblicato alle pp. 169-172 nel mio studio La “Zentralbauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz”. Edizioni di Ar, Padova, 1998. Torna al testo.
(46) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 130. Torna al testo.
(47) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 68-69. Torna al testo.
(48) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(49) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, p. 130. Torna al testo.
(50) Idem, p. 9. Torna al testo.
(51) Vedi al riguardo il mio studio La deportazione degli ebrei ungheresi del maggio 1944. Un bilancio provvisorio. Effepi, Genova, 2007, p. 47. Torna al testo.
(52) Idem, p. 228. Torna al testo.
(53) Idem, p. 265. Torna al testo.
(54) Quarantäne-Liste. APMO, D-AuII-3/1, p. 5. Torna al testo.
(55) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 72. Torna al testo.
(56) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 236. Torna al testo.
(57) Secondo la versione ufficiale, il “Sonderkommando” era alloggiato nel Block 13 del campo BIId. Torna al testo.
(58) Il testimone si riferisce ad una baracca adibita a camera mortuaria. Torna al testo.
(59) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 35. Torna al testo.
(60) L’Album d’Auschwitz. Editions du Seuil, Parigi, 1983, p. 177. Torna al testo.
(61) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 120. Torna al testo.
(62) La denominazione delle strade si trova anche nella «Pianta di Birkenau» pubblicata alle pp.56-57 del libro di Venezia. Torna al testo.
(63) L’Album d’Auschwitz, op. cit., fotografia 152 a p. 176 e 174-189, pp. 194-205. Vedi al riguardo il mio studio La deportazione degli ebrei ungheresi del maggio 1944. Un bilancio provvisorio, op. cit., pp. 36-38 e 66-67. Torna al testo.
(64) F. Müller, Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., 1979, p. 200. Torna al testo.
(65) Vedi il disegno 936 del crematorio II (e III) del 15 gennaio 1942 in: J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989, pp. 268-269. Vedi anche la fotografia del crematorio III pubblicata in Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 73. Torna al testo.
(66) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 72-73. Torna al testo.
(67) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di priogionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., pp. 66-67. Torna al testo.
(68) F. Müller, Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 287, pianta del crematorio II/III (erroneamente indicato come IV/V), locale 12. Torna al testo.
(69) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 99. Torna al testo.
(70) D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 764. Torna al testo.
(71) Vedi § 13. Torna al testo.
(72) D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 773. Torna al testo.
(73) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 66. Torna al testo.
(74) Come ho già accennato, i primi trasporti dall'Ungheria arrivarono ad Auschwitz il 17 maggio. Torna al testo.
(75) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit, pp. 130-131. Torna al testo.
(76) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(77) C. Mattogno, The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2004. Torna al testo.
(78) Idem, p. 75. Torna al testo.
(79) D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 769. Torna al testo.
(80) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 198. Torna al testo.
(81) Idem, p. 200. Torna al testo.
(82) C. Mattogno, The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, op. cit., p. 210. Torna al testo.
(83) Idem, p. 220. Torna al testo.
(84) Tuttavia i cadaveri, nel «Leichenkeller», erano in decomposizione «a causa del caldo». Vedi § 5. Allo stesso modo, durante l'evacuazione su vagoni aperti, nel gennaio 1945, quando il freddo era «insostenibile» – almeno 20 gradi sotto zero, riferisce Primo Levi (Se questo è un uomo. Einaudi, Torino, 1984, p. 196) – un cadavere morto nel vagone di Venezia, il giorno dopo, «cominciava a puzzare tremendamente». Torna al testo.
(85) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 199. Torna al testo.
(86) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 212. Torna al testo.
(87) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di priogionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 45. Torna al testo.
(88) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 56-57. La casetta ribattezzata “Bunker 2” si trovava al di fuori del campo, circa 200 m a ovest della Zentralsauna. Torna al testo.
(89) Idem, p. 74. Torna al testo.
(90) Idem, p. 76. Torna al testo.
(91) Sulle contraddittorie e insensate dichiarazioni di Sz. Dragon, incluse quelle rese ai Sovietici, vedi il mio studio The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, op. cit., pp. 71-83. Torna al testo.
(92) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di priogionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 42. Torna al testo.
(93) C. Mattogno, The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, op. cit., pp. 106-110 e documento 15 a p. 210, che riproduce un disegno del “Bunker 5” eseguito dal testimone in cui appare la didascalia «dach kryty słomą», «tetto ricoperto di paglia». Torna al testo.
(94) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 54. Torna al testo.
(95) C. Mattogno, The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, op. cit., pp. 88-92. Torna al testo.
(96) Idem, pp. 106-110 e 210-211. Torna al testo.
(97) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 75. Torna al testo.
(98) «Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria», art. cit. Torna al testo.
(99) Vedi al riguardo il mio studio Auschwitz: Open Air Incinerations. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2005, pp. 13-23. Torna al testo.
(100) J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 171. Torna al testo.
(101) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz , op. cit., pp. 9-10. Torna al testo.
(102) Idem, p. 10. Torna al testo.
(103) Idem, p. 228. Torna al testo.
(104) Idem. Torna al testo.
(105) Idem, p. 229. Torna al testo.
(106) Una concessione alla leggenda della fantastica combustibilità dei cadaveri delle donne, espressa così da H. Tauber: «I corpi delle donne bruciavano meglio e più in fretta di quelli degli uomini. Per questo motivo, cercavamo il corpo di una donna, quando un carico bruciava male, per metterlo nel forno e accelerare l’incenerimento». Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 76. Torna al testo.
(107) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz , op. cit., pp. 266-267. Torna al testo.
(108) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 78. Torna al testo.
(109) Idem, p. 74. Torna al testo.
(110) M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz. Longanesi, Milano, 1977, pp. 72-73. Torna al testo.
(111) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 267. Torna al testo.
(112) Idem, p. 229. Torna al testo.
(113) C. Mattogno, Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., pp. 43-68. Torna al testo.
(114) Idem, pp. 33-34. Vedi anche il mio articolo «“Verbrennungsgruben” und Grundwassenstand in Birkenau», in: Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 6, n. 4, dicembre 2002, pp. 421-424. Torna al testo.
(115) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 80. Torna al testo.
(116) Idem, p. 223, nota 18. Torna al testo.
(117) Ma al processo Auschwitz F. Müller aveva menzionato solo «due grosse fosse» (zwei große Gruben). Bernd Naum, Auschwitz. Bericht über die Strafsache gegen Mulka u. a. vor dem Schwurgericht Frankfurt. Athäneum Verlag, Francoforte sul Meno-Bonn, 1965, p. 334. Torna al testo.
(118) C. Mattogno, Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., pp. 13-23. Torna al testo.
(119) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 100. Torna al testo.
(120) C. Mattogno, Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., documemti 23-28, pp. 106-111. Torna al testo.
(121) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 207 e 211. Torna al testo.
(122) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(123) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 77. Torna al testo.
(124) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., pp. 207-208. Torna al testo.
(125) C. Mattogno, «Verbrennungsexperimente mit Tierfleisch und Tierfett. Zur Frage der Grubenverbrennungen in den angeblichen Vernichtungslagern des 3. Reiches», in: Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 7, n. 2, luglio 2003, pp. 185-194. Torna al testo.
(126) Vedi § 6. Torna al testo.
(127) Affermazione priva di senso, avendo i crematori II e III la medesima pianta, sia pure speculare. Torna al testo.
(128) «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 77. Torna al testo.
(129) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 80. Torna al testo.
(130) Ad es. l’Erläuterungsbericht zum Ausbau des Kriegesgefangenenlagers der Waffen-SS in Auschwitz O.S. del 30 settembre 1943. RGVA, 502-2-60, p. 81. Torna al testo.
(131) Ad es. il Kostenvoranschlag zum Ausbau des Kriegesgefangenenlagers der Waffen-SS in Auschwitz del 1° ottobre 1943. RGVA, 502-2-60, pp. 89-90. Torna al testo.
(132) Ad es. quella del crematorio II del 31 marzo 1943. RGVA, 502-2-54, p. 77. Torna al testo.
(133) M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, op. cit., p. 39. Torna al testo.
(134) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 96. Torna al testo.
(135) Processo Höss, tomo 2, pp. 99-100. Torna al testo.
(136) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 33. Torna al testo.
(137) «Protokolle des Todes», in: Der Spiegel, n. 40/1993, p. 162. Torna al testo.
(138) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), p. 65. Torna al testo.
(139) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 237. Torna al testo.
(140) The Buchenwald Report. Translated, edited and with an introduction by David A. Hackett. Westview Press. Boulder, San Francisco, Oxford, 1995, p. 168. Torna al testo.
(141) Gerald Fleming, Hitler und die Endlösung. Limes Verlag, Wiesbaden e Monaco, 1982, p. 204. Torna al testo.
(142) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 35. Torna al testo.
(143) «Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria», art. cit. Torna al testo.
(144) RGVA, 502-2-54, pp. 77-78. Torna al testo.
(145) Bauabschnitt II, settore di costruzione II. Torna al testo.
(146) RGVA, 502-1-83, p. 311. Torna al testo.
(147) Per un approfondimento della questione rimando al mio studio già citato «The Morgues of the Crematoria at Birkenau in the Light of Documents». Torna al testo.
(148) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 85. Torna al testo.
(149) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 35. Torna al testo.
(150) «Testimonianza tenuta a S. Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria», art. cit. Torna al testo.
(151) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 89. Torna al testo.
(152) Idem, p. 82. Torna al testo.
(153) J.-C- Pressac, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 50, 232 e 486. Torna al testo.
(154) Ho spiegato la funzione di questa porta e del locale (il Leichenkeller 1) nell’articolo già citato «The Morgues of the Crematoria at Birkenau in the Light of Documents». Torna al testo.
(155) J.-C- Pressac, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 436. Torna al testo.
(156) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 82. Torna al testo.
(157) Idem, p. 65. Torna al testo.
(158) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 87. Torna al testo.
(159) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 183. Torna al testo.
(160) Idem, p. 131. Successivamente Venezia si dimentica di lui, scrivendo: «Un medico ebreo che faceva parte del Sonderkommando mi disse che bisognava incidere per far uscire il pus» (p. 143). Ma questo «medico ebreo» era appunto M. Nyiszli. Torna al testo.
(161) SDG significa Sanitätsdienstgrade, designazione degli infermieri SS del servizio sanitario. Torna al testo.
(162) M. Nyizsli afferma che la presunta camera a gas, un locale lungo 30 metri, aveva una lunghezza di 200 metri. M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, op. cit., p. 37 e 39. Torna al testo.
(163) Idem, p. 39. Torna al testo.
(164) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 74. Torna al testo.
(165) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 87. Torna al testo.
(166) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 66. Torna al testo.
(167) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 87. Torna al testo.
(168) Idem, p. 83. Torna al testo.
(169) M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, op. cit., pp. 40-41. Questa storia fantastica era già stata precedentemente ripresa, con un ardito plagio, da F. Müller. Cfr. C. Mattogno, Auschwitz: un caso di plagio. Edizioni. La Sfinge, Parma 1986; Olocausto: dilettanti allo sbaraglio. Edizioni di Ar, Padova 1996, pp. 59-62. Torna al testo.
(170) Idem, p. 39. Torna al testo.
(171) Il cloro, rispetto all'aria a 0°C, ha densità di 2,49. Torna al testo.
(172) G. Wellers, morto nel 1991, fu direttore di un laboratorio di ricerche alla Facoltà di Medicina di Parigi dal 1956 e Assessore del Decano della Facoltà dal 1968 al 1974. Torna al testo.
(173) G. Wellers, «Die zwei Giftgase», in: Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas. Eine Dokumentation. A cura di Eugen Kogon, Hermann Langbein, Adalbert Rückerl e altri. S. Fischer Verlag, Francoforte sul Meno, 1983, p. 283. Torna al testo.
(174) Vedi al riguardo il mio studio già citato «The Elusive Holes of Death». Torna al testo.
(175) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 89. Torna al testo.
(176) Idem, p. 93. Torna al testo.
(177) Idem, p. 77. Vedi § 7. Torna al testo.
(178) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 186. Torna al testo.
(179) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 95. Torna al testo.
(180) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 269. Torna al testo.
(181) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 81. Torna al testo.
(182) M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, op. cit., p. 42. Torna al testo.
(183) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 91. Torna al testo.
(184) Idem. Torna al testo.
(185) Vedi documento 1. Torna al testo.
(186) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 91. Torna al testo.
(187) J.-C. Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945. Feltrinelli, Milano, 1994, documento 25 fuori testo. Torna al testo.
(188) Come si desume dal rapporto coll'apertura del montacarichi, che era larga m 2,10. Torna al testo.
(189) Aktenvermerk di Kirschnek del 25 marzo 1943. APMO, BW 30/25, p. 8. Torna al testo.
(190) Lettera della Topf alla Zentralbauleitung del 30 settembre 1942. APMO, BW 30/34, p.114 e BW 30/27, p. 30. Torna al testo.
(191) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 98. Torna al testo.
(192) Idem, p. 96. Torna al testo.
(193) Idem, p. 100. Torna al testo.
(194) Idem, p. 85. Torna al testo.
(195) Idem, p. 88. Torna al testo.
(196) L’ortografia è incerta: F. Piper dà le varianti Gorges, Gorger, Goger e Gorgies. Torna al testo.
(197) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., 106. Torna al testo.
(198) Idem, p. 105. Torna al testo.
(199) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 147. Torna al testo.
(200) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 127. Qui il parente è il cugino del padre, Léon Venezia. Torna al testo.
(201) M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, op. cit., pp. 98-103. Torna al testo.
(202) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 129-130. Torna al testo.
(203) Idem, p. 91. Torna al testo.
(204) Vedi documento 1. Torna al testo.
(205) Vedi il documento 2. Torna al testo.
(206) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di priogionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., p. 75. Torna al testo.
(207) Idem. Torna al testo.
(208) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 36. Torna al testo.
(209) M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, op. cit., p. 43. Torna al testo.
(210) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit.; «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 79. Torna al testo.
(211) «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 77. Torna al testo.
(212) Lorenzo Fazzini, «Il caso. Dopo la conferenza di Teheran sull'Olocausto, parla l'unico sopravvissuto del Sonderkommando di Auschwitz vivente in Italia», in:
http://www.db.avvenire.it/avvenire/edizione_2007_01_03/agora.html. Torna al testo.
(213) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 102. Torna al testo.
(214) G. Greif, Wir weinten tränenlos... Augenzeugenberichte der jüdischen "Sonderkommandos” in Auschwitz, op. cit., p. 131. Torna al testo.
(215) Idem, pp. 40-41. Torna al testo.
(216) Interrogatorio di K. Prüfer del 5 marzo 1946; interrogatorio di K. Schultze del 4 marzo 1946. Vedi J. Graf, «Anatomie der sowjetischen Befragung der Topf-Ingenieure. Die Verhöre von Fritz Sander, Kurt Prüfer, Karl Schultze und Gustav Braun durch Offiziere der sowjetischen Antispionageorganisation Smersch (1946/1948)», in: Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno 6, n. 4, dicembre 2002, pp. 404 e 413-414. Torna al testo.
(217) Vedi al riguardo il mio studio «The Crematoria Ovens of Auschwitz and Birkenau», in: Dissecting the Holocaust. The Growing Critique of “Truth” and “Memory”. A cura di Ernst Gauss [Germar Rudolf]. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2003, pp. 373-412. Torna al testo.
(218) «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 78. Torna al testo.
(219) J. A. Topf & Söhne, Betriebsvorschrift des koksbeheizten Topf-Doppelmuffel-Einäscherungsofen, 26 settembre 1941. APMO, BW 11/1/3, p.2-3; J. A. Topf & Söhne, Betriebsvorschrift des koksbeheizten Topf-Dreimuffel-Einäscherungsofen. Marzo 1943, in: J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 222. Torna al testo.
(220) J. Sehn, Oświęcim-Brzezinka (Auschwitz-Birkenau) Concentration Camp. Wydawnictwo Prawnicze, Varsavia, 1961, p. 137. Torna al testo.
(221) J.-C. Pressac, Auschwitz : Technique and operation of the gas chambers, op. cit., p. 224, fac-simile del documento. Torna al testo.
(222) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., pp. 36-37. Torna al testo.
(223) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 212. Torna al testo.
(224) Idem, p. 211. Torna al testo.
(225) C. Mattogno, Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., pp. 101-107. Torna al testo.
(226) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 93. Torna al testo.
(227) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 222. Il trasporto delle ceneri avveniva «mit Schubkarren», con carriole. Torna al testo.
(228) «La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 34. Torna al testo.
(229) C. Mattogno, «Flammen und Rauch aus Krematoriumskaminen», in: Vierteljahreshefte für freie Geschichts-forschung, anno 7, n. 3-4, dicembre 2003, pp. 386-391. Torna al testo.
(230) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(231) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 84. Torna al testo.
(232) Idem, p. 94. Torna al testo.
(233) Idem, p. 31. Torna al testo.
(234) Lettera del Bauleiter del Lager II alla Kommandantur des K.L.II Birkenau del 9 maggio 1944. RGVA, 502-1-83, p. 377. Torna al testo.
(235) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 107-108. Torna al testo.
(236) F. Müller, Sonderbehandlung. Drei Jahre in den Krematorien und Gaskammern von Auschwitz, op. cit., p. 134. Torna al testo.
(237) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(238) M. Nyiszli, Medico ad Auschwitz, op. cit., pp. 59-60. Torna al testo.
(239) Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945), op. cit., nota 12 a p. 16. Torna al testo.
(240) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 105. Torna al testo.
(241) C. Mattogno, Auschwitz: Open Air Incinerations, op. cit., pp. 80-89, riepilogo della forza del personale dei crematori. Torna al testo.
(242) Su questo evento non esiste alcun documento tedesco. Torna al testo.
(243) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 140. Torna al testo.
(244) Seguo la versione ufficiale esposta da F. Piper in W. Długoborski e F. Piper (a cura di), Auschwitz 1940-1945. Studien zur Geschichte des Konzentrations- und Vernichtungslagers Auschwitz, op. cit., volume III, pp. 221-224. Torna al testo.
(245) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 139. Torna al testo.
(246) Idem, p. 147. Torna al testo.
(247) W. Długoborski e F. Piper (a cura di), Auschwitz 1940-1945. Studien zur Geschichte des Konzentrations- und Vernichtungslagers Auschwitz, op. cit., volume III, p. 224. Torna al testo.
(248) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 70. Torna al testo.
(249) Idem, pp. 112-113. Torna al testo.
(250) Idem, pp. 147-148. Torna al testo.
(251) AGK, 131-12. Torna al testo.
(252) Wacław Lipka (n. 2520), Mieczysław Morawa (n. 9730), Józef Ilczuk (n. 14916), Władysław Biskup (n. 74501) e Jan Agrestowski (n. 74545). Torna al testo.
(253) Fac-simile del documento originale in: Inmitten des grauenvollen Verbrechens. Handschriften von Mitgliedern des Sonderkommandos. Hefte von Auschwitz, Sonderheft (I), Oświęcim, 1972, p. 44. Torna al testo.
(254) Idem, pp. 50-51, fac-simile del documento originale. Torna al testo.
(255) Het Nederlandsche Roode Kruis. Auschwitz. Deel V: De deportatietransporten in 1944. Uitgave van het hoofdbestuur van de vereniging het Nederlandsche Roode Kruis. 's-Gravenhage, 1953, p. 85. Torna al testo.
(256) Un’idea non molto sagace: se egli avesse detto “Benezia”, gli addetti all’immatricolazione avrebbero potuto capire male e scrivere proprio “Venezia”! Anzi, poiché è un fatto risaputo che gli Ebrei «arrivati in Italia, prendevano il nome della città in cui vivevano» (Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 17) e poiché il nome della città di Venezia è noto a tutti, gli addetti in questione avrebbero certamente capito, appunto, “Venezia”. Torna al testo.
(257) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 153. Torna al testo.
(258) Ad Auschwitz le liste riguardanti i detenuti recavano anzitutto il numero di matricola, poi il cognome e il nome. Torna al testo.
(259) «Io, l’ultimo dei Sonderkommando addetti ai crematori di Auschwitz», art. cit. Torna al testo.
(260) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 176. Torna al testo.
(261) Idem, 142. Torna al testo.
(262) D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., p. 939. Torna al testo.
(263) RGVA, 502-1-67, p. 227. Torna al testo.
(264) D. Czech, Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945, op. cit., 962. Torna al testo.
(265) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 42. Torna al testo.
(266) Idem, p. 140. Torna al testo.
(267) Le strutture del Leichenkeller 1 che più balzavano agli occhi erano i sette pilastri di calcestruzzo di cm 40 x 40 che sostenevano un poderoso trave di calcestruzzo che attraversava al centro il locale per tutta la sua lunghezza. Torna al testo.
(268) Venezia esprime il suo ringraziamento «a tutti gli storici, i ricercatori, gli insegnanti e gli studenti» che aveva incontrato, «in particolare a quelli che, in un modo o nell'altro, hanno contribuito a questo libro: Marcello Pezzetti, Umberto Gentiloni, Béatrice Prasquier, Maddalena Carli e Sara Berger». Sonderkommando Auschwitz, op. cit., 179. Torna al testo.
(269) Ad esempio, quella che Venezia indicava in precedenza come «sezione A» («La testimonianza di Salomone Venezia sopravvissuto dei sonderkommando», art. cit., p. 34), diventa correttamente la sezione BIIa. Torna al testo.
(270) Con ciò intendo i termini relativi a installazioni o funzioni del campo. Torna al testo.
(271) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 221-223. Torna al testo.
(272) Idem, pp. 181-205. Torna al testo.
(273) Su di lui vedi il mio articolo «Marcello Pezzetti, “esperto mondiale” di Auschwitz», in: Olocausto: dilettanti a convegno, op. cit., pp.93-117. Torna al testo.
(274) Una pianta di Birkenau (pp. XLIV-XLV) simile a quella pubblicata nel libro di Venezia (pp. 56-57), la fotografia del crematorio III, p. L (Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 73) e della cremazione all'aperto, p. XLVIII (Sonderkommando Auschwitz, op. cit., p. 80), inoltre i sette disegni di D. Olère che nel libro di Venezia appaiono alle pp. 76, 82, 84,86, 88, 90, 92, rispettivamenti riprodotti a p. 66, 240, 13, 17, 90, 274 e 143. Torna al testo.
(275) V. Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, Milano, 1998, p. 183. Torna al testo.
(276) S. Klarsfeld (a cura di), David Olère.A Painter in the Sonderkommando at Auschwitz. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989. Torna al testo.
(277) Nel libro stesso appaiono fotografie di Venezia con Avraham Dragon, «ex membro del Sonderkommando», con Lemke Pliszko (idem) e con «lo storico Marcello Pezzetti» a Birkenau. Sonderkommando Ausschwitz, op. cit., p. 71,104 e 177. Torna al testo.
(278) In questa rivista appare anche un'altra fotografia che mostra Venezia col medesimo album, ma aperto al disegno del crematorio col camino fiammeggiante. «Io, ebreo, cremavo gli ebrei», art. cit., p. 79. Torna al testo.
(279) Vedi al riguardo il mio studio Auschwitz: 27 gennaio 1945 - 27 gennaio 2005: sessant'anni di propaganda. I Quaderni di Auschwitz, 5. Effepi, Genova, 2005. Versione riveduta e ampliata in: http://www.vho.org/aaargh/ital/archimatto/CMausch45.pdf. Torna al testo.
(280) S. Klarsfeld (a cura di), David Olère. A Painter in the Sonderkommando at Auschwitz, op. cit., p. 54. Torna al testo.
(281) Idem, p. 141. Torna al testo.
(282) In un questionario ufficiale destinato ai disinfettori civili si legge: «D.- L’acido cianidrico ha un colore determinato? R.- No, l’acido cianidrico è incolore sia liquido sia gasoso. D.- Perché allora si chiama Blausäure [= acido blu]? R. - Perché all’inizio fu prodotto dal blu di Prussia». O. Lenz, L. Gassner, Schädlingsbekämpfung mit hochgiftigen Stoffen, Heft 1: Blausäure. Verlagsbuchhandlung von Richard Schoetz, Berlino, 1934, p. 15. Torna al testo.
(283) Sonderkommando Auschwitz, op. cit., pp. 75-77. Torna al testo.
(284) E. Friedler, B. Siebert, A. Kilian (a cura di), Zeugen aus der Todeszone. Das jüdische Sonderkommando in Auschwitz. Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco, 2005. I molteplici riferimenti a Venezia sono tratti da un’intervista. Torna al testo.
ABBREVIAZIONI
AGK: Archiwum Głównej Komisji Badania Zbrodni Przeciwko Narodowi Polskiemu - Instytutu Pamieci Narodowej (Archivio della Commissione centrale di inchiesta sui crimini contro il popolo polacco - memoriale nazionale), Varsavia
APMO: Archiwum Państwowego Muzeum w Oświęcimiu (Archivio del Museo di Stato di Auschwitz), Auschwitz
GARF: Gosudarstvenni Archiv Rossiskoi Federatsii (Archivio di Stato della Federazione Russa), Mosca
RGVA: Rossiiskii Gosudarstvennii Vojennii Archiv (Archivio russo di Stato della guerra), Mosca.
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Author(s): | Olodogma |
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Published: | 2014-03-03 |
First posted on CODOH: | March 22, 2018, 1:29 p.m. |
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